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Età giolittiana

La legislazione sociale di Giolitti e lo sviluppo industriale dell'Italia
Dopo la morte di Umberto I, in un momento particolarmente difficile per l'Italia, divenne re all'età di 31 anni il figlio Vittorio Emanuele III (1900-1946). Il nuovo sovrano decise di abbandonare la politica reazionaria paterna e inaugurò un nuovo indirizzo, che prevedeva il ritorno alla legalità costituzionale. Nel 1901 infatti, alla caduta del ministero Saracco, che con una politica contraddittoria aveva finito per scontentare sia la Destra sia la Sinistra, il re affidò l'incarico di formare il governo all'esponente più in vista della Sinistra, l'insigne giurista Giuseppe Zanardelli.
Questi abbandonò il sistema repressivo seguito dai predecessori, concesse un'amnistia ai condannati politici e stabilì una limitata libertà di associazione e di propaganda.

Giolitti capo del governo
Nel 1903, in seguito al ritiro per malattia di Zanardelli, fu chiamato a capo del governo il ministro degli interni Giovanni Giolitti (1842-1928). Dopo l'esperienza fatta tra il 1892 e il 1893 Giolitti divenne nuovamente presidente del Consiglio e mantenne la carica, salvo brevi interruzioni per quasi un decennio, passato alla storia con il nome di età giolittiana. Di orientamento liberale e appartenente alla cosiddetta Sinistra costituzionale, il nuovo capo del governo fu abilissimo nel trovare un equilibrio tra le forze sociali, promuovendo da un lato un'avanzata legislazione sociale e dall'altro una politica volta a favorire la nascente industria italiana. Concesse pertanto ampia libertà di sciopero. Va a tal proposito ricordato che lo sciopero, seppure implicitamente ammesso dal codice Zanardelli del 1889, era ancora ostacolato con forme di intimidazione e drastici interventi della forza pubblica. In presenza di agitazioni sociali e scioperi, Giolitti si limitò invece a mantenere l'ordine pubblico evitando repressioni violente, in attesa che i contrasti tra lavoratori e proprietari si risolvessero per mezzo di trattative dirette fra i rappresentanti delle due parti. E a chi gli rimproverava di avere giudicato lo sciopero un mezzo legale di lotta, replicava di non avere mai avuto paura dei lavoratori e che, d'altra parte, il Paese non sarebbe stato né tranquillo né prospero finché la maggioranza degli Italiani fosse rimasta in condizioni economiche e morali disagiate.

Attività legislativa in campo sociale
Nello sforzo di adeguare le istituzioni dello Stato alle esigenze di una concreta modernizzazione, Giolitti si preoccupò anche di prevenire le agitazioni sociali con la pacifica arma delle riforme. Egli era infatti convinto che il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori coincidesse con un deciso progresso di tutto il Paese e quindi con un indubbio vantaggio per il sistema produttivo e per lo Stato, che ormai non poteva più essere considerato come un miope difensore degli interessi padronali. Nel corso del suo decennio di governo venne pertanto perfezionata e ampliata la legislazione in favore dei lavoratori anziani, infortunati o invalidi, vennero emanate nuove norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, venne esteso l'obbligo dell'istruzione elementare fino al dodicesimo anno di età, venne stabilito il diritto al riposo settimanale. Inoltre, allo scopo di offrire anche ai lavoratori la possibilità effettiva di presentare la propria candidatura alle elezioni, venne per la prima volta stabilita un'indennità parlamentare, cioè un compenso ai deputati per le spese che dovevano sostenere per svolgere il proprio compito in Parlamento. Giolitti non fu insensibile neppure alle pressanti rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati. Egli favorì infatti la conquista di migliori retribuzioni, le quali, accrescendo le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici, contribuirono a determinare una più ampia richiesta di beni di consumo sui mercati e conseguentemente un aumento della produzione.
In questo quadro si inseriscono anche alcuni importanti interventi nel settore della sanità pubblica, come la distribuzione gratuita del chinino contro la malaria, che in soli otto anni fece abbassare la percentuale dei malarici dal 31% al 2%. Le numerose riforme sociali e igienico-sanitarie comportarono un deciso aumento demografico e un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la quale passò dai 26 milioni del 1870 ai 36 del 1913.

Il rafforzamento della lira e l’aumento delle attività produttive
Il maggior benessere generale così raggiunto e le rimesse degli emigranti, che ormai avevano superato il mezzo miliardo di lire all’anno (circa 260 milioni di euro), facilitarono il risanamento dell’economia nazionale, permettendo un notevole incremento delle entrate dello Stato. In questo modo, malgrado alcune gravissime sciagure abbattutesi sul Paese, quali l’eruzione del Vesuvio nel 1906 e il terremoto di Messina nel 1908, fu possibile mantenere il bilancio in pareggio e addirittura anche ampiamente attivo. Una simile politica, insieme a una scrupolosa amministrazione del denaro pubblico, portò la cartamoneta italiana ad acquistare un eccezionale prestigio al punto da fare aggio sull’oro, da essere cioè preferita alle monete d’oro sul mercato internazionale.
La favorevole situazione finanziaria accrebbe a sua volta il risparmio e quindi i depositi presso le banche, le quali poterono così finanziare numerose imprese sia nel settore agricolo sia in quello industriale, rivitalizzando tutto il sistema economico del Paese. Il reddito agricolo, in seguito ad alcuni importanti lavori di bonifica e di irrigazione e a un più ampio uso dei concimi chimici, salì dai tre miliardi di lire del 1870 ai sette del 1910. Anche l’industria meccanica, che pure si trovava ancora in condizioni di grande inferiorità rispetto a quella straniera, ottenne un rilevante sviluppo insieme all’industria chimica, tessile e alimentare, raddoppiando il fatturato tra il 1900 e il 1913. All’interno del sistema produttivo italiano si affermò in particolare il settore dell’industria automobilistica, che ebbe nella Fiat, fondata a Torino da Giovanni Agnelli (1866-1945) nel 1899 la sua più promettente espressione, con una produzione annua salita rapidamente dalle sei vetture del 1900 alle 1380 di pochi anni dopo ; quello dell’industria della gomma, la quale sorta a Milano nel 1872 per iniziativa dell’industriale Giovan Battista Pirelli (1848-1932), passò dai 413 quintali di caucciù importato e lavorato negli ultimi anni dell’Ottocento ai 35.000 quintali del 1914; quello dell’industria idroelettrica, che passò dalle poche migliaia di chilowatt del 1898 al mezzo milione del 1908, con un incremento che pur se rilevante, non poté far fronte all’aumentata domanda, né eliminare l’importazione di carbone, passata a sua volta dai due milioni di tonnellate del 1881 agli 11 milioni del 1913.

Le opere pubbliche e il monopolio sulle assicurazioni
Durante l’età giolittiana fu inoltre realizzato un intenso programma di lavori pubblici, che ebbe le sue più significative manifestazioni nell’estensione della rete stradale e ferroviaria (si parlò non a torto di miracolo ferroviario), nell’apertura del traforo del Sempione (lungo circa 20 chilometri) e nell’inizio dei lavori per l’acquedotto pugliese. Giolitti istituì inoltre il monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, sino allora gestite da società private. Portata in discussione in Parlamento nel giugno 1911, tale iniziativa incontrò una fierissima opposizione da parte dei soggetti direttamente coinvolti e dei più fanatici liberisti, che fecero sentire la loro voce attraverso una violenta situazione parlamentare, Giolitti preferì scendere a un compromesso con i suoi oppositori, autorizzando le società assicuratrici a continuare il loro esercizio per altri dieci anni limitatamente alle somme superiori a un certo tetto e a cedere invece le altre al nuovo Istituto Nazionale per le Assicurazioni, entrato in funzione nel 1912.

Personaggio: Maria Montessori
Era il 1896 quando Maria Montessori conseguì, prima donna in Italia, la laurea in medicina. Da quel momento prese avvio la sua lunga attività di impegno sociale e scientifico a favore del recupero di bambini con ritardo mentale e in seguito dell'educazione dei fanciulli, resa ancor più stupefacente se pensiamo agli anni in cui si svolse. I suoi studi trovarono una concreta applicazione quando ebbe l'incarico di aprire alcune scuole nel popolare quartiere romano di San Lorenzo. Nascevano così nel 1907 le Case dei bambini, che ebbero rapido successo e diffusione anche all'estero, dove la Montessori tenne corsi di preparazione e trascorse lunghi periodi, soprattutto quando i suoi principi educativi si scontrarono con l'avversione del regime fascista, che ostacolò la sua ricerca e la costrinse a dimettersi dall'Opera Nazionale Montessori da lei fondata nel 1924. Gli anni trascorsi dalla sua nascita, avvenuta a Chiaravalle di Ancona nel 1870, alla sua morte nel 1952 in Olanda, testimoniano la statura di questa straordinaria figura storica. Grande clamore suscitarono le sue idee femministe e l'intervento al Congresso femminile di Berlino del 1896, ma senza dubbio il rinnovamento dell'educazione infantile è il suo contributo più rilevante. Quello che è venuto a connotarsi come il metodo Montessori mira infatti a promuovere, innanzitutto attraverso l'educazione sensoriale, lo sviluppo del bambino, rendendolo attivo, costruendo per lui un ambiente adatto nel quale possa acquistare e sviluppare abilità, aiutato da insegnanti capaci di incanalare le potenziali energie nella giusta direzione. Le numerose pubblicazioni di cui fu autrice hanno posto le basi della pedagogia scientifica, presentando, per la prima volta, un'immagine ricca e positiva dell'universo infantile, nonché una difesa dei bambini, dei loro diritti e della loro personalità.

Problemi irrisolti dal governo Giolitti
L’azione positivamente scolta nel suo insieme dal secondo governo Giolitti non deve comunque far dimenticare la lunga serie di problemi rimasti ancora insoluti. L’Italia infatti continuava a essere per certi aspetti un Paese estremamente arretrato, dove ancora dilagava l’analfabetismo, con punte addirittura superiori al 50% in Sicilia, Calabria e Basilicata; dove la tubercolosi mieteva più di 75.000 vittime l’anno; dove la disoccupazione e la povertà erano presenti quasi ovunque, con punte paurose soprattutto in certe zone del Sud: uno Stato, insomma, per molti aspetti sottosviluppato e classificato tra i più arretrati d’Europa, in cui i cittadini vedevano ancora come unica soluzione alla loro miseria l’emigrazione in massa verso altri Paesi europei ed extraeuropei.

L'emigrazione italiana dal 1870 alla prima guerra mondiale
L'emigrazione nei Paesi extraeuropei ha rappresentato uno dei più importanti fattori che hanno permesso di alleggerire la pressione demografica in Europa nel corso degli ultimi due secoli.
Per quanto riguarda l'Italia, il fenomeno coinvolse un numero impressionante di individui: furono circa 20 milioni le persone che lasciarono il nostro Paese fra il 1860 e il 1940.
L'apice dell'emigrazione italiana fu raggiunto fra il 1888 e il 1891, in corrispondenza di alcune annate di scarsi rendimenti agricoli, che misero in ginocchio uno Stato ancora prevalentemente basato sull'agricoltura. L'Italia, infatti, nonostante durante l'età giolittiana avesse conosciuto un principio di industrializzazione, era e restava un Paese povero e arretrato, che sperava di trovare la soluzione alla miseria nell'emigrazione in massa verso altri Paesi europei ed extraeuropei. Dal Sud Italia l'emigrazione era diretta soprattutto verso gli Stati Uniti, mentre dal Nord Italia le mete principali erano l'Argentina e il Brasile, dove si recò, ad esempio, il 75% degli emigranti veneti. L'emigrazione è un fenomeno complesso che produce importanti conseguenze, non solo a livello sociale, ma anche personale e familiare. Basti pensare al dolore per il distacco: spesso a emigrare erano solo uomini, padri e mariti che lasciavano a casa le proprie mogli e i propri figli per cercare lavoro nelle industrie degli Stati uniti o nelle piantagioni del Sud America. Non sempre queste famiglie avevano modo di ricongiungersi, anzi, secondo i sociologi del tempo, uno degli effetti più negativi dell'emigrazione era proprio la disgregazione delle famiglie, dal momento che questo tipo di emigrazione si caratterizzò sin da subito come di lungo periodo, priva di progetti concreti di ritorno in Italia. Oltre al dolore per la separazione dei propri nuclei familiari, si aggiungeva la preoccupazione per il viaggio, che, a dispetto di quanto pubblicizzavano le compagnie di navigazione, era lungo e pieno di difficoltà. Sulle navi gli emigranti viaggiavano giorni e giorni in ambienti chiusi e malsani o sul ponte, esposti alle intemperie e alle malattie. Spesso inoltre si verificavano aggressioni e furti, che raramente venivano puniti. Le agenzie dell'emigrazione in molti casi facevano vera e propria opera di esportazione degli schiavi: promettevano ricchi compensi in denaro, un lavoro sicuro; poi, arrivati in America, senza conoscenza della lingua, spaesati, senza alcuna possibilità di tornare indietro, gli emigranti venivano affidati perlopiù a dei padroni.
Soltanto nel 1901 in Italia fu approvata una legge organica dell'emigrazione che prevedeva, fra le altre cose, l'abolizione di agenzie e subagenzie e diverse norme per l'assistenza sanitaria e igienica, per la protezione dei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell'emigrazione.
Una volta approdati in terra straniera, oltre alle difficoltà di ambientamento, di lingua e di costumi, una delle più urgenti necessità era quella di trovare subito una casa e soprattutto un lavoro, attraverso il quale riuscire a mantenere le proprie famiglie inviando i soldi in patria e a costruire contemporaneamente un futuro migliore per se stessi. Nelle grandi città degli Stati Uniti soltanto in alcuni quartieri poveri e malfamati era possibile ottenere una sistemazione. Per quanto riguarda poi il posto di lavoro, l'emigrante veniva impiegato prevalentemente nei lavori di bassa manovalanza, a causa della mancanza di qualificazione professionale e per la forte domanda di manodopera dovuta al grande sviluppo dei lavori pubblici e dell'industria. 
Molto più spesso il destino di questi emigranti fu quello di lavorare per un padrone. Italiani già da tempo residenti negli Stati Uniti gestivano il collocamento degli immigrati, quasi sempre sfruttando i propri nazionali. Giocando sull'ignoranza della lingua e del funzionamento della società statunitense, esigevano quote dei salari per il lavoro che procacciavano o per l'abilitazione, oltre all'obbligo di acquistare le merci in uno spaccio indicato.
Nei Paesi sudamericani come il Brasile, invece, la manodopera degli emigranti italiani sostituì in buona parte quella prestata fin a quel momento dagli schiavi: in quanto bianco e cattolico l'immigrato italiano era trattato diversamente dagli schiavi di colore, ma la qualità della vita effettiva era di poco superiore, anche perché in molti proprietari terrieri permaneva una mentalità schiavista. Si pensi che il governo italiano nel 1902 si trovò costretto a emanare un decreto con cui proibiva l'emigrazione in Brasile.

La politica interna tra socialisti e cattolici
Durante il suo lungo ministero Giolitti cercò insistentemente di immettere nello Stato le masse lavoratrici e contadine, che ne erano escluse e che esprimevano la loro protesta attraverso il movimento cattolico. Egli, infatti, aveva compreso che la trasformazione economica e sociale del Paese esigeva non solo una sicura base di consenso parlamentare, ma anche e questa fu una novità assoluta nella vita politica italiana un apertura alle forze politiche del Paese che fino ad allora non si erano mai pienamente identificate con il sistema parlamentare. Ecco perché egli ricercò anzitutto un accordo con il Partito socialista, il cui programma minimo non era in fondo molto lontano dal suo. Pertanto, nel 1903, Giolitti offrì a Filippo Turati, capo della corrente riformista, nella convinzione che coinvolgendo le forze della Sinistra le avrebbe allontanate dalle tentazioni rivoluzionarie. L'iniziativa, per la verità, non ebbe successo: infatti, come avrebbero potuto accettare un accordo simile la corrente intransigente e il sindacalismo rivoluzionario? In realtà, specialmente dopo il primo sciopero generale della storia italiana, attuato tra il 15 e il 20 settembre 1904, e le conseguenti nuove elezioni, che videro l'indebolimento dell'estrema sinistra, il Partito socialista cominciò ad avvicinarsi alla politica di Giolitti, pur senza mai arrivare a una concreta collaborazione di governo.

Il riavvicinamento della Chiese alla politica

In seguito allo sciopero generale, tuttavia, Giolitti ritenne necessario anche un riavvicinamento alla Chiesa cattolica, con l'obiettivo di un reciproco appoggio di fronte al crescente pericolo della marea rossa. Del resto i tempi erano maturi per un passo di questo genere, dato che nello schieramento cattolico erano nel frattempo emerse nuove posizioni nei riguardi di una partecipazione politica alla vita pubblica italiana. Sull'onda dell'entusiasmo provocato dalla Rerum novarum (l'enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa emanata nel 1891 dal papa leone XIII), all’interno del cattolicesimo italiano si venne sviluppando infatti un orientamento favorevole ai principi liberali, anche se filtrati attraverso l’ottica cristiana, e in contrasto con ogni forma di individualismo borghese, di esaltazione della libera concorrenza e di concezione del lavoro come pura merce regolata dalle leggi della domanda e dell’offerta. L’accettazione della situazione politica italiana si accompagnava, in conformità allo spirito cristiano, a una più ampia apertura verso i fondamentali diritti dell’intero corpo sociale, tra i quali una piena libertà sindacale, un’ampia legislazione sociale, un’efficace riforma tributaria, un concreto decentramento amministrativo, nonché un deciso allargamento del suffragio elettorale.

La nascita della Democrazia cristiana
All’interno di questo orientamento il sacerdote marchigiano Romolo Murri (1870-1944), fondatore nel 1900 di un movimento che assunse poi il nome di Democrazia cristiana italiana. Aperto ai problemi sociali posti dall’industrializzazione e polemico nei confronti delle rigide chiusure dei cattolici intransigenti, Murri si rese interprete appassionato di una possibile conciliazione tra democrazia e religione, tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa, anche attraverso la formazione di un’ampia rete di organismi politico-sindacali e di uffici del lavoro.
Questo movimento però non trovò il pieno consenso né di Leone XIII, né del successore Pio X: entrambi i pontefici miravano infatti a legare prudentemente il movimento democratico cattolico alla gerarchia ecclesiastica, al fine di mantenere i fedeli nell’ambito di un cauto appoggio, valutato di volta in volta, nei riguardi di deputati liberali vicini alle aspirazioni cattoliche. Pertanto Murri entrò in contrasto con la gerarchia ecclesiastica e, dopo essere stato eletto deputato nel 1904 con l’appoggio radicale e socialista, fu nel 1907 sospeso a divinis (cioè dall’esercizio sacerdotale) e successivamente scomunicato nel 1909.

Il partito laico-cristiano e il movimento delle leghe bianche
Nel frattempo in Sicilia un altro sacerdote, Luigi Sturzo (1871-1959), si andava convincendo della necessità di un partito laico-cristiano, a carattere democratico e popolare, pienamente autonomo dall’autorità ecclesiastica in grado di inserirsi nell’impianto civile creato dal liberalismo e di fungere da centro di aggregazione della grande massa degli esclusi dalle scelte politiche ed economiche dello Stato liberale. Egli infatti criticava aspramente i cattolici moderati e sosteneva che la Chiesa dovesse elaborare i propri programmi e le proprie autonome strategie politiche.
Vi era, infine, anche un forte movimento sindacale di ispirazione cattolica, legato soprattutto a Guido Miglioli (1879-1954) e alle sue leghe bianche, che operavano particolarmente nelle campagne attraverso l’organizzazione di casse rurali e associazioni contadine.

Il patto Gentiloni
Quando all’interno del Partito socialista prevalse l’orientamento rivoluzionario, Giolitti si rese conto che l’unica via da imboccare era quella di un’intesa con le forze cattoliche. D’altra parte, l’ideologia atea e anticlericale del Partito socialista, il linguaggio eversivo e la violenza degli scioperi avevano indotto lo stesso pontefice Pio X (1903-1914) ad attenuare l’intransigenza vaticana nei riguardi del regno d’Italia e ad ammorbidire il non expedit, ammettendo la possibilità di una partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche. Per questo, in occasione delle elezioni indette subito dopo lo sciopero generale, Pio X concesse ad alcuni candidati con una scelta puramente personale e non vincolante per la Chiesa di farsi eleggere nelle liste liberali. Nel 1913, contemporaneamente all’estensione de diritto di vot, stipulò con il conte marchigiano Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) un accordo segreto, il patto Gentiloni, in base al quale i cattolici si impegnavano a sostenere l’elezioni dei deputati liberali, ottenendo in cambio l’abbandono della politica anticlericale. Tale avvenimento segnò di fatto il rientro dei cattolici nella vita politica italiana dopo la frattura del 1870.

L’estensione del voto ai cittadini maschi
Il patto Gentiloni precedette di poco uno dei provvedimenti più qualificanti del governo Giolitti: l’estensione del diritto di voto, che consentiva una maggiore partecipazione politica alle classi popolari. La nuova legge, approvata in data 30 giugno 1912, ammetteva al voto tutti i cittadini di sesso maschile purché avessero compiuto 21 anni, se in grado di leggere e scrivere e con servizio militare svolto, o 30 anni, se analfabeti e non chiamati sotto le armi. In tal modo l’analfabetismo cessava di essere assurdamente considerato una colpa, a causa della quale un analfabeta era ritenuto idoneo a compiere il servizio militare o a fare la guerra, ma non legittimato a far sentire il peso delle proprie esigenze e della propria volontà sul modo di gestire lo Stato. Una così importante riforma, applicata per la prima volta soltanto nell’ottobre 1913 a causa della guerra in Libia, fece salire il numero degli elettori da 3 milioni e mezzo (6,9% dell’intera popolazione) a quasi 8 milioni e mezzo, su un totale di oltre 36 milioni di abitanti (23,2%).

Il governo personale di Giolitti: critiche e meriti
L’azione politica di Giolitti non fu comunque esente da critiche: in primo luogo per ciò che riguardava la corruzione del corpo elettorale. Egli infatti, pur di riuscire a dominare la scena politica, non rinunciò a destreggiarsi fra gli opposti partiti, appoggiandosi ora agli uni ora agli altri e cercando di accontentare un po’ tutti, industriali e operai, agrari e braccianti, liberali e socialisti, con un atteggiamento non molto dissimile dal tanto criticato trasformismo di Depretis. Inoltre durante le elezioni non rifuggì neppure dalla corruzione e dall’intimidazione, avvalendosi dei prefetti e della polizia per eliminare scomodi avversari e per potere così creare una Camera di soli deputati giolittiani di ferro, e come tali disposti a obbedirgli fedelmente. Tali metodi elettorali, aggravati da un esasperato uso del clientelismo e del centralismo burocratico, furono particolarmente diffusi nel Mezzogiorno e vennero denunciati con decisione dallo storico, socialista Gaetano Salvemini (1873-1957). Malgrado queste accuse, è ormai però ampiamente riconosciuto che la lunga stabilità del governo così ottenuta sentì a Giolitti importanti risultati, fra i quali quello di accogliere alcuni punti del programma dei socialisti e di frenare l’irruenza della loro ala estrema.

La politica estera e la guerra di Libia
Con Giolitti non cambiò indirizzo soltanto la politica interna, ma anche, e forse in maggiore misura, la politica estera. L’azione diplomatica dei governi precedenti infatti era stata caratterizzata dalla convinzione che tutti i problemi di politica estera si potessero risolvere nel quadro della Triplice Alleanza, firmata nel 1882 tra Italia, Germania, e Austria. Protetti da questo patto, gli Italiani si erano avventurati in Africa, provocando l’ostilità di Francia e Inghilterra. La sconfitta di Adua nel 1896 aveva dunque dimostrato che una qualsiasi impresa coloniale non sarebbe stata possibile senza il favore di queste due grandi potenze. Per questo motivo l’impiego politico e diplomatico di Giolitti fu indirizzato a ristabilire buoni rapporti con la Francia e con l’Inghilterra e a considerare la Triplice Alleanza un patto puramente difensivo. Di conseguenza egli prese accordi con la Francia per una rapida eliminazione dei contrasti, che tanto danno avevano arrecato all’economia dei due Paesi; concordò inoltre un’eventuale espansione francese nel Marocco in cambio del consenso a una possibile penetrazione italiana in Tripolitania e Cirenaica, territori ormai solo debolmente controllati dalla Turchia. Accordi simili furono firmati anche con l’Inghilterra e con la Russia. Tutto ciò indeboliva la Triplice Alleanza, ma rafforzava la posizione italiana in Europa e, in ultima analisi, favoriva la pace, facendo dell’Italia un elemento moderatore dei contrasti fra Austria e Germania da una parte e Inghilterra, Francia e Russia dall’altra.

La preparazione della guerra libica e la posizione dell’opinione pubblica
Quando nel 1911 l’Italia riprese l’iniziativa coloniale, sbarcando sull’ultima parte di Africa settentrionale non ancora occupata dalle potenze occidentali, l’impresa aveva dunque avuto un’accurata preparazione diplomatica e militare. L’Italia, del resto, non era più lo Stato debole di quindici anni prima: le finanze pubbliche erano state riassestate e la popolazione andava numericamente crescendo. Anzi, proprio questo aumento demografico ancora una volta era preso a pretesto per giustificare i sacrifici di un’impresa coloniale, la sola ritenuta capace di disperdersi nel mondo delle preziose energie assorbite dall’emigrazione. I più assoluti sostenitori di un nuovo intervento in Africa furono i seguaci di un movimento politico che proprio in quegli anni si stava sviluppando in Italia a opera soprattutto di Enrico Corradini (1865-1931): il nazionalismo.
Dal canto suo, anche Giolitti, che pure era poco disposto a fare una guerra, finì per mostrarsi favorevole all’impresa per ragioni di equilibrio europeo e mediterraneo: si era infatti convinto che ogni ulteriore ingrandimento delle potenze coloniali avrebbe costituito un indebolimento e una diminuzione di prestigio per l’Italia. Quando nel 1911 la Francia dette inizio alla conquista del Marocco, Giolitti ritenne che fosse il momento di intervenire, poiché difficilmente si sarebbero create per gli Italiani altre occasioni per essere presenti nell’Africa settentrionale. Ebbe inizio così la seconda impresa africana dell’Italia.

La dichiarazione di guerra e l’occupazione della Libia
Il 29 settembre 1911, prendendo come pretesto alcuni incidenti verificatesi a Tripoli ai danni di cittadini italiani, l’Italia dichiarò guerra alla Turchia, sotto il cui dominio si trovava la Libia, e pochi giorni dopo un corpo di spedizione, comandato dal generale Carlo Caneva (1845-1922), sbarcò a Tripoli e occupò rapidamente tutta la fascia costiera fino a Tobruk, sconfiggendo il nemico nella battaglia di Ain Zara. Più difficile e lenta fu invece la conquista dell’interno, non solo per le difficoltà del territorio, ma anche per la resistenza della popolazione locale, che organizzò un’estenuante azione di guerriglia, alla quale l’Italia rispose con pesanti e brutali metodi di repressione.
Al fine di costringere la Turchia alla pace, nel maggio 1912 il governo italiano decise di attaccarla direttamente. Un corpo di spedizione occupò infatti Rodi e altre undici isole dell’Egeo, che insieme formavano il cosiddetto Dodecaneso (cioè dodici isole), mentre il comandante Enrico Millo con cinque torpediniere nella notte tra il 18 e il 19 luglio penetrava nello stretto dei Dardanelli, dimostrando con il suo audace gesto che ormai neppure Costantinopoli poteva considerarsi sicura.
Il sultano chiese l’armistizio e firmò la pace il 18 ottobre 1912, a Losanna: in base a essa la Turchia riconosceva all’Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica e si impegnava a far cessare la guerriglia. A garanzia di tale impegno l’Italia conservava il Dodecaneso.

Le conseguenze del conflitto
L’occupazione della nuova colonia, cui fu mantenuto l’antico nome romano di Libia, non portò all’economia italiana i vantaggi che molti si aspettavano. Quell’ampia fascia di territori africano era prevalentemente desertica e assai povera di materie prime, ad eccezione di vastissimi giacimenti petroliferi, che però furono scoperti soltanto successivamente all’indipendenza del Paese (1952). Tuttavia le operazioni militari in Libia, condotte per la prima volta con mezzi moderni, quali il telegrafo, il telefono, l’automobile e l’aeroplano, contribuirono a rafforzare le posizioni italiane nel Mediterraneo. L’impresa libica ebbe comunque importanti conseguenze in campo politico. Essa infatti incoraggiò i nazionalisti spingendoli sempre più apertamente contro il governo, considerato troppo debole e indeciso. La guerra provocò inoltre una spaccatura all’interno del Partito socialista tra i riformisti, che avevano in genere approvato il conflitto, attratti dalla promessa del suffragio universale (1912), e la maggioranza del partito, che l’aveva invece fieramente combattuta in nome del pacifismo socialista e dell’avversione alle guerre imperialistiche. La spaccatura divenne addirittura irreparabile quando il congresso di Reggio Emilia (1912) espulse dal partito i riformisti Leonida Bissolati (1857-1920) e Ivanoe Bonomi (1873-1951), che si erano apertamente schierati in favore della guerra libica. Per tutta risposta essi subito dopo dettero vita a un autonomo Partito socialista riformista italiano. Gli altri socialisti riformisti, guidati da Filippo Turati, benché ormai in posizione minoritaria e quindi sempre meno influente, rimasero nel Psi, diretto, insieme ad altri, da Benito Mussolini (1883-1945), che rappresentava allora l’ala più intransigente del partito, in aperta opposizione al governo.

La crisi della linea giolittiana e il ministero Salandra
Fu proprio il radicalismo socialista a spingere Giolitti a cercare nuove alleanze, concretizzarsi poi nel patto Gentiloni. Ma ciò non bastò a consolidare la sua leadership, che cominciò a indebolirsi, come dimostrarono i non incoraggianti risultati ottenuti nelle prime elezioni a suffragio universale del 1913. Ecco perché Giolitti, stretto ormai fra oppositori molto decisi e alleati poco docili, nel marzo del 1914 preferì cedere il posto ad Antonio Salandra (1853-1931), un liberale moderato, che egli credeva di poter mettere da parte al momento opportuno senza troppo difficoltà. Questa volta però i calcoli non tornarono. La situazione tendeva infatti a deteriorarsi sempre più nel tessuto sociale e politico, anche perché il governo Salandra, pur presentandosi con un programma non molto dissimile da quello giolittiano, intendeva dal punto di vista pratico battere vie diverse. Ciò diventò evidente quando il 7 giugno 1914, durante una manifestazione antimilitarista organizzata dai socialisti ad Ancona, la polizia intervenne uccidendo tre dimostranti. Ne conseguì l’immediata proclamazione di uno sciopero, che si protrasse fra agitazioni e tumulti per sette giorni (7-13 giugno 1914) e sfociò in gravi atti di sabotaggio e di violenza, con ben 17 morti e più di 400 feriti e contusi fra i dimostranti e le forze dell’ordine. Fu questa la cosiddetta settimana rossa, che ebbe il proprio epicentro nella Romagna e nelle Marche e trovò affiancati i più autorevoli esponenti della corrente intransigente socialista, del sindacalismo rivoluzionario, dell’anarchismo e del democraticismo repubblicano, privi però di una direzione salda e di obbiettivi precisi: ciò permise al governo di riprendere in mano la situazione, sia pure dopo qualche giorno. Di lì a poco, del resto, il primo conflitto mondiale avrebbe modificato ogni rapporto politico e fatto passare in secondo ordine questa manifestazione di generale protesta, chiaro segno del profondo malcontento diffuso tra le masse lavoratrici.






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