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L'Europa dopo la prima guerra mondiale


Riassunto:
Nella conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919) le quattro potenze vincitrici (Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Italia) si scontrarono su due diversi orientamenti da adottare per la nuova sistemazione dell’Europa: quello democratico, espresso dal presidente americano Wilson nei Quattordici punti, basato sui principi dell’autodecisione dei popoli e del rispetto delle nazionalità; e quello di Francia e Inghilterra, intenzionate a mettere i Tedeschi in condizione di non poter più nuocere. Nel 1919 venne fondata a Ginevra la Società delle Nazioni, un organismo internazionale preposto a regolare pacificamente le controversie tra gli Stati; la sua azione tuttavia fu limitata dal ritiro degli Stati Uniti e dalla mancanza di mezzi concreti di intervento contro quelle nazioni che avessero disatteso l’opera di mediazione condotta dalla Società stessa.
Nonostante la politica conciliante degli Stato Uniti, la Francia e l’Inghilterra puntarono all’annientamento non solo militare, ma anche economico della Germania. Per questo le due potenze decisero di imporre pesanti clausole di pace alla Germania (trattato di Versailles, giugno 1919), che suscitarono sentimenti di rivincita del popolo tedesco. Sul vastissimo territorio appartenente all’antico impero austro-ungarico sorsero quattro Stati indipendenti: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Iugoslavia (chiamata fino al 1929 regno di Serbi, Croati, Sloveni). Fu riconosciuta inoltre l’indipendenza dell’Albania. All’Italia l’Austria cedette il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e l’alto bacino dell’Isonzo (trattato di Saint Germain, settembre 1919). Sui territori un tempo appartenuti alla Russia nascevano i nuovi Stati indipendenti della Finlandia, dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania. Con il trattato di Neuilly (novembre 1919) fu riconosciuta anche l’indipendenza della Bulgaria.
Oltre al crollo dell’Austria-Ungheria vi fu anche la fine di un altro immenso impero, quello ottomano. Con il trattato di Sevres del 10 agosto 1920 la Turchia si trovò non solo ridotta a un modesto Stato, ma anche privata di tutti i territori arabi e della sovranità sugli Stretti (Bosforo e Dardanelli) e costretta a pagare pesanti riparazioni di guerra. La rivolta nazionalista del generale Ataturk portò in seguito alla proclamazione delle pesanti clausole del trattato e alla loro sostituzione con altre più accettabili, siglate nel trattato di Losanna (1923).
Francia e Inghilterra procedettero inoltre alla spartizione del Vicino Oriente in due rispettive zone di influenza attraverso la politica dei mandati: la Francia ottenne il mandato su Siria e Libano, l’Inghilterra su Iraq, Transgiordania e Palestina. Ciò suscitò la rabbia degli Arabi, ulteriormente inaspriti dal progetto di costituire la Palestina una sede nazionale ebraica (dichiarazione Balfour). La spinta all’indipendenza dei popoli arabi aveva portato nel frattempo all’unificazione fra il 1919 e il 1932 della penisola arabica, fino ad allora divisa in diversi Stati, e alla creazione del regno dell’Arabia Saudita.
Il conflitto creò le premesse per una nuova fase della storia mondiale, caratterizzata dall’inizio di un travagliato movimento di emancipazione dei Paesi coloniali. Nel XX secolo infatti nei Paesi afroasiatici da questa ondata di riscossa fu l’impero coloniale britannico, che dopo la prima guerra mondiale aveva ulteriormente ampliato i suoi possedimenti. Nel frattempo l’Inghilterra era stata costretta a concedere l’indipendenza agli Stati del Commonwealth (al Canada nel 1869, all’Australia nel 1910 e alla Nuova Zelanda nel 1917) e all’Egitto (1922), dove però mantenne il controllo del canale di Suez. Particolarmente significativo fu il movimento indipendentista dell’India, guidato da Gandhi, detto Mahatma, secondo il quale l’emancipazione dagli inglesi doveva essere ottenuta attraverso la non-violenza.
L’impero coloniale francese, ingrandito con il possesso delle ex colonie tedesche (Camerun e Togo) e il controllo sulla Siria, continuò nella sua politica di sfruttamento delle risorse locali.
Il Giappone, che dopo il conflitto aveva acquisito le ex colonie tedesche in Asia, diede impulso alla sua politica imperialistica: nel 1931 occupò la Manciuria, approfittando della confusa situazione politica cinese. Dopo la caduta della dinastia imperiale Manciù (1912) e la proclamazione della repubblica, la Cina si era infatti divisa in due: nel Nord dominavano i reazionari signori della guerra, nel Centro-Sud governava il democratico Sun Chung-shan. La minaccia giapponese aveva favorito la nascita del Partito nazionalista (Kuomintang), guidato da Chiang Kai-shek: questi, sconfitti i signori della guerra, aveva formato un nuovo governo con capitale Nanchino. In seguito si era aperto lo scontro tra il Kuomistang e il partito comunista cinese, fondato tra gli altri da Mao Tse-tung, convinto della necessità di coinvolgere nella rivoluzione le masse contadine. Battuti da Chiang Kai-shek, i comunisti e il loro esercito (l’Armata rossa) si spostarono con la lunga marcia (1934) nel settentrione del Paese, dove fondarono una repubblica comunista. Di fronte però all’avanzata nipponica, comunisti e nazionalisti deposero ogni rivalità e adottarono una politica di unità nazionale (1937), alleandosi nella guerra contro il Giappone. 



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