Trama:
Mattia Pascal, il protagonista è un povero bibliotecario di Miragno, un paesino della Liguria. Egli si sente come fuori della vita (capitolo IV); travolto da rovesci economici, afflitto da continue angustie familiari, ma con il gusto di ridere di tutte le sue sciagure (capitolo V), decide allora di fuggire. La sua meta ideale è l'America. Ma raggiunta la città di Montecarlo, gioca alla roulette del famoso casinò e vince un'ingente somma. Divenuto ricco decide, in un primo tempo, di tornare in paese; rimane tuttavia sbalordito leggendo su un giornale la notizia del proprio suicidio: moglie e suocera quasi felici di sbarazzarsi in tal modo di lui, lo hanno erroneamente riconosciuto nel cadavere di un uomo annegato in un canale presso Miragno.
Gli si offre così, inaspettata, l'occasione per cambiare identità e vita: visto che tutti, al paese, lo credono morto, può costruirsi, con il finto nome da lui inventato Adriano Meis, una nuova esistenza. Dunque si attribuisce un passato ricco di fantastici ricordi, muta il proprio aspetto fisico (si fa tagliare la barba, si fa correggere lo strabismo dell'occhio ecc.), prende residenza in una grande città, Roma, dove vive a pensione nella casa di Anselmo Paleari, uno strambo personaggio. In casa Paleari vivono anche la signorina Caporale, una maestra di pianoforte fallita, che annega le proprie delusioni nel bere e che pratica lo spiritismo come medium, e l'ambiguo Terenzio Papiano, con il fratello epilettico. Mattia, alias Adriano Meis, s'innamora della figlia del proprietario, Adriana.
Tuttavia il protagonista non è appagato, e sente crescere in sé la coscienza del vuoto che gli sta intorno, certo, per lui era alienante la precedente condizione, con una vita familiare infelice e un lavoro insoddisfacente; essa però gli offriva perlomeno, nella trama abituale delle relazioni sociali, la sicurezza di esistere. Questa nuova condizione, sotto le mentite spoglie di Andriano Meis, gli ha consegnato una libertà solo apparente. Derubato da Papiano, non può denunciare il furto; privo di documenti, non può sposare Adriana. Dopo oltre due anni, Mattia decide di suicidare Adriano Meis.
Torna così al paese, dove scopre che tutti l'hanno dimenticato; la moglie si è risposata con Pomino, un vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia. Mattia non può reinserirsi nella vita normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri, scrivere le sue memorie, chiacchiere con l'unico amico che gli è rimasto, don Eligio, rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese. Da lì esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome.
Il racconto è svolto in prima persona: l'io narrante è lo stesso protagonista, Mattia Pascal, che riepiloga, alla fine della propria straordinaria avventura, quanto gli è accaduto. Bibliotecario in un piccolo paese ligure, Miragno, ha trovato l'occasione di fuggire dalla famiglia opprimente e da un lavoro monotono: giocando al casinò di Montecarlo vince infatti una cospicua somma, grazie a cui può conquistare finalmente la libertà negatagli dall'esistenza quotidiana. Assume così il nuovo nome, da lui inventato di Adriano Meis e cambia vita.
Mattia deve però dolorosamente constatare che nemmeno questa nuova condizione gli consente di raggiungere la felicità anzi , la sua solitudine si è fatta ancora più inesorabile. Non possiede infatti documenti che comprovino formalmente la sua identità: di fatto non esiste e lo constata amaramente al momento in cui vorrebbe sposare la donna di cui si è innamorato, Adriana, ma non può farlo. La sua evasione si conclude con un deludente fallimento. Il protagonista decide allora di recuperare la vecchia identità di Mattia Pascal e torna al paese natale, ansioso di mostrarsi vivo agli antichi compaesani, ma scopre di essere stato del tutto o quasi dimenticato da loro.. Di lui rimane solo la tomba, dove, dopo la sua improvvisa scomparsa, è stato erroneamente sepolto il cadavere di uno sconosciuto suicida. Mattia Pascal è dunque ormai solo il fu Mattia Pascal, un redivivo sopravvissuto a se stesso, un essere alienato ed emarginato, un individuo che non ha e non è più nulla nemmeno il proprio nome.
Seguendo la fallimentare esperienza del suo personaggio, Pirandello ritrae il sogno di un'evasione impossibile, il desiderio irrealizzabile di afferrare per sé un'identità che non sia quella imposta dal destino. L'esistenza di ogni persona è infatti governata da vicende che non possono essere controllate o mutate, è in balia di convenzioni sociali, rigide, e anonime, capaci di privarti della libertà.
La fuga non serve poiché riscattare la vita che abbiamo ricevuto non ci sono sblocchi o alternative difatti quello di Mattia è un tentativo fallito in partenza.
Mattia Pascal, il suo nome, era questa l'unica cosa che sapeva. E lo usava anche come risposta alle persone che si recavano da lui per dei consigli. Mai e poi mai si sarebbe immaginato che un giorno non avrebbe più potuto usare questa sorta di battuta, mostra il suo dolore e senso di solitudine ed invita qualcuno a compiacerlo, dato che è gratis, perché chi non conosce la sua storia può immaginarlo come un disgraziato vuoto dentro, senza un padre e una madre, praticamente un niente, un morto per la società in cui vive. Però corregge il tiro è dice che in realtà il padre e la madre li ha conosciuti e che il suo è un caso talmente strano che ha deciso di narrarlo. Per circa due anni ha lavorato per due soldi, come guardiano della biblioteca di un certo monsignor Boccamazza che la lasciò al Comune. A dir la verità la biblioteca era in condizione talmente sudicie che non avrebbe avuto bisogno neanche di un guardiano dato che è stata visitata solo da qualche topo, e il Comune dimostrava una certa indifferenza sullo stato pietoso della conservazione dei suddetti libri. Anche Mattia Pascal la pensava come il Comune; egli aveva poca stima dei libri e non aveva in mente di scrivere un libro, ma siccome il suo caso l'ha colpito particolarmente pensò di scriverlo perché, magari, avrebbe incuriosito qualche lettore. Un libro che avrebbe scritto e depositato in questa biblioteca con l'obbligo di essere letto non prima di 50 anni dopo la sua terza morte. Egli afferma di essere già morto la prima volta in modo accidentale, la seconda invece... (la spiegherà nei capitoli successivi).
Capitolo II
Premessa seconda (filosofica) a mò di scusa.
Se Mattia ha iniziato a scrivere è merito di Eligio Pellegrinotto, un amico più che un reverendo per lui, che teneva in custodia i libri di Boccamazza e che avrebbe custodito anche il suo libro semmai fosse riuscito a finirlo. Quei libri erano tutti in disordine e polverosi, trattavano per la maggior parte di cose di chiesa. Il reverendo sostiene che Copernico (colui che ha scoperto che è la Terra a girare intorno al Sole e non il contrario) era un maledetto perché con le nuove teorie ha stravolto il modo di pensare precedente e, inoltre, afferma che siamo considerati una sorta di minuscoli esseri viventi (vermucci) che valgono meno di niente nell'Universo, ma non solo le persone ma anche le calamità come il disastro delle Antille non sono altro che sintomi dell'impazienza della Terra che ha sbuffato un po' di fuoco da una delle sue bocche. Don Eligio in qualche modo convince Mattia che l'uomo si distrae facilmente. Ad esempio l'uomo crede che il sole serva per illuminare il giorno e la luna e le stelle per illuminare la notte, dimenticandosi di essere un atomo piccolissimo che si azzuffa che fa addirittura a botte per un pezzo di terra.
Ora l'autore vuole raccontare la sua storia nel modo più breve possibile, senza obblighi o scrupoli di coscienza, perché si considera ormai fuori dalla vita.
Capitolo III
Mattia Pascal dice di non aver conosciuto bene il padre perché era morto quando aveva 4 anni, lasciando nell'agiatezza la moglie e due figli (Mattia cioè se stesso) e Roberto, due anni più di lui. Si dice che si era arricchito giocando a carte e facendo il commerciante con il suo trabaccolo, poi investì i soldi per acquistare buone terre ricche di olivi e vigneti e anche due case. Le cose andarono a peggiorare con la sua morte, quando la moglie inesperta si affidò al Malagna per gestirà l'eredità. Mattia lo soprannominò "la talpa" perché stava scavando la fossa sotto i loro piedi. La madre di Mattia stava sempre in casa e usciva solo per andare a messa e veniva torturata dalla cognata per convincerla a risposarsi con un pover uomo, Gerolamo Pomino, che aveva già un figlio. Zia Scolastica invece non si era mai voluta sposare con nessuno perché aveva paura che gli uomini la tradissero. Quando Mattia divenne adulto gran parte dei possedimenti se ne erano andati ma continuava insieme al fratello con quel tenore di vita, a cui la madre li aveva abituati da piccoli. La madre non li aveva mandati a scuola ma li aveva affidati al precettore Pinzane pensando che la sua istruzione gli sarebbe bastata. La zia Scolastica non era riuscita a convincere la madre a risposarsi e in qualche modo non faceva mancare il suo supporto. Mattia dovette mettersi gli occhiali per raddrizzare l'occhio, ma tutto sommato era in salute. A diciotto anni gli era cresciuto un barbone rossastro però aveva un brutto naso e decise di non portare più gli occhiali convinto di essere brutto anche se avesse avuto l'occhio sano, invece invidiava il fratello Berto che era più bello e appariscente di lui. Nel mentre il Malagna ogni volta che li andava trovare diceva che era costretto a vendere a poco a poco tutti i loro possedimenti per pagare i debiti. Berto fu fortunato a fare un matrimonio molto vantaggioso, viceversa Mattia con un aria un po' triste smette di raccontare e parla con don Eligio chiedendogli se vale la pena di parlare del suo matrimonio ed egli disse che era indispensabile e così continuò a scrivere il 4° capitolo.
Capitolo IV
Nel corso di una battuta di caccia Mattia vide Batta Malagna. Era un uomo dal pancione enorme e penzolante che non gli davano l'aspetto del ladro, ma rubava a loro danno. Secondo lui rubava per distrarsi dai suo problemi, come il fatto che era costretto a obbedire agli ordini impartiti dalla moglie Guendalina perché appartenente a un ceto superiore. Dopo il matrimonio la moglie del Malagna si era ammalata di un male inguaribile e ogni volta che il Malagna invitava a pranzo Mattia e Berto lo rimproverava perché gli faceva venire la tentazione di mangiare tutte quelle cose buone come il vino e i dolci e si veniva a creare una sorta di teatrino tra moglie e marito che tanto faceva divertire i due ragazzi. Il Malagna, quindi, fece contenta la moglie, ma quando venne a sapere che lei beveva e mangiava di nascosto, riprese a bere, ma lontano dagli occhi della moglie.
A quel punto che egli cominciò a rubare, forse rubava per il suo figliolo tanto desiderato ma che non aveva mai detto alla moglie perché malata e pure sterile. Dopo la morte, quasi scontata, della moglie Guendalina, il Malagna si rattristò molto e nonostante la sua ricchezza non si risposò, però si prese la figlia d'un fattore di campagna come prole desiderata, sana e robusta, aveva fatto tutto in fretta perché ormai non era un giovanotto. Questa ragazza si chiamava Oliva e Mattia ne era innamorato ma gli faceva rabbia il fatto che ormai appartenesse al Malagna. Eppure Mattia non si stupì del fatto che ella preferì i soldi del Malagna nonostante l'avesse sempre odiato. Erano passati alcuni anni e figli non se ne erano visti nella nuova coppia, Mattia pensava che era colpa del Malagna, troppo vecchio per mettere al mondo un figlio e non di certo di Oliva.
Intanto Mattia pensava a come investire il denaro e in questo si faceva aiutare da Gerolamo il Pomino, detto Mino, che frequentava sia lui che Berto. Mino gli raccontò che la serva del Malagna gli avevo proposto la figlia come sposa dopo la morte della prima moglie ma questi si rifiutò. Si fece dare da Mino l'indirizzo della serva e con la scusa della cambiale andò a cercare il Malagna a casa della cognata e di sua nipote. Lo colpì una ragazza in particolare (Romilda) e con una scusa promise che sarebbe ritornato un'altra volta. Quando Mattia riferì quanto accaduto a Pomino, entrambi pensarono che Romilda, la figlia della strega, fosse sicuramente onesta e che dovevano in qualche modo salvarla. Quindi Pomino doveva farsi notare da lei e con l'aiuto dell'amico Mattia avrebbero organizzato un incontro. Mattia voleva aiutare Pomino ma col frequentare Romilda non fece altro che complicare le cose perché la donna si era innamorata di lui. Si era innamorato pure lui ma nello stesso tempo gli parlava di Pomino, però un giorno ella non volle saperne di scherzi e di parlare dell'amore lontano di Pomino e si dichiarò. Mattia però non poteva e non voleva fuggire con lei e dopo alcuni giorni cercò una soluzione più onesta.
Però a Mattia arrivò una lettera da parte di Romilda in cui diceva che la loro relazione fosse finita, inizialmente non capì il perché ma tutto fu chiaro quando Oliva andò in casa sua (di Mattia) a parlare come faceva spesso con sua madre e disse che il Malagna si frequentava con un altra e voleva tornare dal suo babbo.
Mattia la fermò e gli mostrò la lettera facendogli capire che sono stati fregati entrambi, forse perché entrambi erano troppo innocenti per una famiglia che non faceva altro a pensare a se stessi.
Mattia gli spiegò che lei deve mentire al Malagna dicendogli che è tutto vero che non può avere figli e che invece lui può averli, e così fece. Un giorno si venne a sapere che il figlio di Romilda era nato dall'incontro nella gita in campagna con Mattia e così si vide costretto a sposarla, e ciò non fece di certo piacere alla "strega" (madre di Romilda).
Capitolo V
La strega non si sapeva dar pace del fatto che Mattia e sua figlia Romilda presto avrebbero avuto un figlio. Non solo si era introdotto in casa sua senza il suo permesso ma gli aveva rovinato anche la figlia, non gli perdonava neanche il fatto di aver messo incinta pure Oliva, compagna di suo fratello Batta Malagna. Era inviperita perché sapeva della gelosia che avrebbe avuto Romilda di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli allori; mentre il suo nell'angustia, nell'incertezza del domani e fra tutta quella guerra casalinga. Intanto lei era buttata lì su una poltrona tormentata da continue nausee. Fu peggio quando per salvare la Stia si dovette vendere le case, e la madre fu costretta ad entrare nell'inverno a casa sua. Mattia doveva cercarsi un lavoro, aveva pietà della madre perché voleva morire al più presto invece di rimanere in quell'inferno e aveva paura a lasciarla da sola. Aveva scritto a Roberto per tenersi in casa la madre, ma non poteva perché viveva sulla dote della moglie. La vedova Pescatore aveva paura che vivessero sulle 42 lire mensili. Un giorno andarono a far visita alla madre due vecchie serve e una di esse la invitò a vivere con lei. Quando Mattia tornò a casa vide la suocera con aria minacciosa e la madre che piangeva, quindi le ordinò di andarsene, ma Romilda gli disse che non poteva rimanere senza di lei. Due giorni dopo venne zia Scolastica a prendersi la madre, mentre la suocera faceva il pane, fu una scena buffa per Mattia, poiché la vedova Pescatore dalla rabbia si strappava le vesti di addosso. Mattia uscì per cercarsi un lavoro e lo trovò nella biblioteca Boccamazza con 60 lire al mese. Veniva a trovarlo sempre il vecchio bibliotecario Ronitelli, un uomo sordo e sempre legato ai libri, che morì 4 mesi dopo. Così Mattia si trovò solo a dar la caccia ai tanti topi che c'erano nella biblioteca e cominciò a leggere i libri, mentre quando era stanco chiudeva la biblioteca e andava al mare. Un giorno lo vennero a chiamare perché la moglie aveva le voglie, corse a casa e la suocera gli ordinò di andare a chiamare il dottore. Dopo fu mandato in farmacia, al ritorno gli dissero che una bambina era nata, l'altra stentava a venire alla luce. Egli era felice di avere due bambine, ma una morì pochi giorni dopo, l'altra morì prima di compiere un anno e nello stesso giorno morì sua madre. Il dolore lo assalì atrocemente e quella notte uscì e camminò disperatamente finché giunse al podere della Stia dove incontrò Filippo, un vecchio mugnaio, che cercò di consolarlo. Dopo alcuni giorni Roberto gli mandò 500 lire per fare una buona sepoltura alla madre, ma ci aveva già pensato la zia Scolastica e così il denaro se lo tenne per sé.
Capitolo VI
Dopo una delle solite scene con la suocera e con la moglie, Mattia era capitato a Montecarlo. Era fuggito dal paese a piedi, stanco della sua orribile vita con le 500 lire di Berto. Pensava di recarsi a Marsiglia e poi in America, sebbene avesse incontrato delle difficoltà non sarebbero state come quelle che aveva patito fino ad allora. Poi vedendo e comprando un opuscolo dove c'era disegnata la roulette pensò di recarsi a Montecarlo in cerca di fortuna. Entrò nel casinò e sentenziò che la gente non va lì per ammirare quelle sale ma perché ha il vizio del gioco e sperano un giorno di vincere come un uomo che essendo fissato col numero 12 anche se non voleva uscire aveva perso parecchi denari. Prima si mise a osservare come procedeva il gioco poi punto qualcosa sul 25 e vinse ma un uomo si prese il denaro con prepotenza dicendo che era suo. Lasciò perdere e si mise a osservare che la maggior parte della gente quando perdeva ripuntava ancora. Cominciò a giocare, inizialmente perse ma poi cominciò a vincere puntando sempre sul 35. Ad un certo punto uscì a prendere una boccata d'aria. Poi riprese a giocare e vinceva sempre, però c'era un uomo che voleva trattenerlo perché gli avrebbe svaligiato la banca. Quell'uomo lo seguì nel treno di ritorno a Nizza e voleva invitarlo a pranzo nel suo hotel. Gli disse che quella donna doveva avere vinto molto seguendo il suo gioco e gli chiese come facesse ad avere quella fortuna. Mattia rispose che quello era stato proprio un giorno fortunato. Quell'uomo che parlava spagnolo gli disse che voleva puntare forte insieme a lui, Mattia disse di no ed era arrabbiato poiché non capiva quasi niente di quello che diceva. Ora erano le due, salì su una vettura e si prenotò una stanza d'albergo e contò che aveva vinto 11.000 lire. La notte non prese sonno e pensava a quello che avrebbe fatto, era indeciso, non sapeva se ritornare a casa e ricominciare la vita di ogni giorno o andare in America o fermarsi a Nizza. Ritorna a Montecarlo e vi stette per 12 giorni, in 9 giorni vinse tantissimo, gli ultimi giorni cominciò a perdere. L'ultimo giorno tornò perché in giardino si era ucciso un uomo che aveva visto parecchie volte giocare, ma perdeva sempre. Egli prese un fazzoletto e gli coprì il volto e la gente lo sgridò perché toglieva lo spettacolo. Così Mattia con le sue 82.000 lire ritornò a Nizza per ripartire lo stesso giorno, senza immaginarsi quello che gli sarebbe successo.
Capitolo VII
Mentre era sul treno del ritorno pensava di riscattare la Stia, non poteva dormire poiché gli veniva in mente il cadavere di quel giovinetto. Immaginava la faccia della moglie e della suocera vedendolo tornare dopo 13 giorni con tanto di denaro e pensava a tanti creditori. Alla prima stazione italiana comprò un giornale e cominciò a leggerlo, erano le otto e un quarto e fra un'oretta sarebbe arrivato. Mentre leggeva il giornale lesse del suicidio di Mattia Pascal, un bibliotecario, che era stato in stato di avanzata putrefazione. Mattia Pascal capì che si trattava di lui e lesse più volte quelle righe e i sospetti andarono sulla suocera che l'avrebbe fatto per interesse suo. Sceso dal treno ad Alenga voleva accertarsi che la sua notizia fosse stata smentita. Telegrafò al direttore del giornale di Miragno per avere il quotidiano di quella domenica, per sapere notizie più dettagliate del fatto avvenuto sabato 28. Scelse come nome Carlo Martello, poi andò dall'ufficiale telegrafico per fare arrivare a lui 15 copie del Foglietto di Miragno. Il giorno seguente arrivò il Foglietto, mentre alloggiava nella Locanda del Parlamentino. Lesse il pezzo che riguardava lui e diceva che la famiglia non vedendolo tornare dal suo lavoro l'aveva cercato e non l'aveva trovato e poi era stato ritrovato morto nello stagno dello Stia; morto forse per mancanza di denaro e per la sofferenza avuta per la morte della figlie e della madre ecc.
Mattia non ce la fece a leggere l'articolo e non si immaginava che i concittadini lo stimassero per le sue virtù. Egli pensò che era stato riconosciuto forse perché la sera prima aveva trascorso la notte lì, nella Stia. Egli approfittò della morte di quel poveraccio per rifarsi un'altra vita, poi della moglie e della suocera non gliene importava nulla perché se lo avessero guardato meglio si sarebbero accorti che non era lui. Comunque infine fece un respiro di sollievo.
Capitolo VIII - Adriano Meis
Mattia Pascal resosi conto che gli altri lo credevano morto, ormai era un uomo libero da ogni obbligo e padrone di se stesso. Voleva cambiare totalmente in modo che così avrebbe vissuto due vite. Per cambiare aspetto ad Alenga si fece accorciare la barba, si sentiva un po' a disagio perché si vedeva spuntare un piccolo mento. C'era il naso piccolo e l'occhio storto. Pensò di comprarsi un paio di cchiali e farsi crescere i capelli in modo da sembrare un filosofo tedesco. Il nome se lo cercò mentre viaggiava in treno, infatti ascoltando la discussione di due signori, molto eruditi che discutevano di iconografia cristiana gli piacque il nome dell'imperatore Adriano e se lo ripeté più volte. Quando questi scesero dal treno Mattia si affacciò dal finestrino e sentì che i due parlavano di un certo Camillo de Meis, quindi tolse il "da" e prese il Meis. Cosìsi battezzò tra sé Adriano Meis. Ora Mattia o meglio dire Adriano Meis era felice di essere libero e tutto gli sembrava buffo. Ad un certo punto si vide nel dito l'anello del matrimonio dove era incisa la data del suo matrimonio e lo intombò facendo un bel gesto. Ora Adriano Meis si doveva creare un passato, pensò che non era opportuno dire il luogo quindi decise che era nato su un piroscafo in viaggio verso l'America, suo padre si chiamava Paolo, poi ci ripensò e riassumendo la sua vita:
a) figlio unico di Paolo Meis
b) Nato in Argentina, senz'altra designazione
c) Venuto in Italia di pochi mesi
d) senza memoria ne quasi notizia dei genitori (padre morto in America e madre quando aveva tre anni)
vissuto col nonno un po' dappertutto a Nizza, a Torino ecc.
Mentre viaggiava per le città d'Italia non pensava solo al presente ma anche al passato che si doveva costruire osservando i ragazzini e s'immaginò il nonno. Lui si vedeva un po' buffo coi capelli lunghi e con gli occhiali. Parlava poco con la gente ed essa credeva che fosse straniero. Mentre viaggiava rifletteva su tantissime cose senza rendersene conto. Aveva provato di essere analfabeta. Fece un tuffo nel passato e si chiedeva se la moglie fosse vestita in lutto, ma era sicuro di no. Si mise a viaggiare per qualche tempo, poi pensò che il denaro doveva bastargli per tutta la vita e doveva trovarsi un lavoro ma senza documenti non poteva, quindi doveva adattarsi a vivere con 200 lire al mese.
Dopo quel lungo girovagare senza nessuno con cui parlare cominciò a sentirsi solo, e un triste giorno di novembre un vecchietto con un cane gli si mostrò davanti. Adriano pensava di comprarlo così avrebbe avuto un amico fedele, gli domandò il prezzo che era 25 lire, voleva acquistarlo ma pensò che non poteva perché avrebbe dovuto pagare la tassa, così non lo comprò. Questa è la prima volta che quella vita che gli era sembrata bella con una libertà sconfinata, era tiranna perché non gli consentiva di tenere un cagnolino.
Capitolo IX
Il primo inverno passò tra gli svaghi dei viaggi e nell'ebrezza della nuova libertà e non importava se c'era nebbia o sole, freddo o caldo. ora doveva cercarsi una dimora stabile ma poi gli veniva il pensiero delle tasse dei documenti ecc.
L'inverno ispirava in lui queste riflessioni malinconiche, era Natale e desiderava il tepore, d'un cantuccio caro, una casa. Quindi rimpiange la sua prima casa e immagina di andare a casa della moglie e dirle che dai superiori aveva avuto il permesso di passare le feste in famiglia. Un giorno alla trattoria fece amicizia con il Cavalier Tito Lenzi che gli diede un biglietto da visita. Adriano Meis ci restò male perché non ne aveva. L'uomo faceva bei discorsi e conosceva il latino e faceva delle domande all'altro che rispondeva con poche parole. Quando seppe che era nato in Argentina gli fece i complimenti. Gli disse che lui abitava da solo, ma precedentemente aveva avuto storie amorose. Adriano si accorse presto che mentiva, e si sentiva rattristato dal fatto che lui odiava le bugie, ma doveva dirle, inoltre non poteva avere dei veri amici con cui confidarsi e raccontare la sua assurda storia. Si stava rendendo conto degli inconvenienti della fortuna, si era conciato in quel modo per piacere agli altri e la solitudine lo assaliva, quando voleva prendere decisioni usciva dall'albergo e passeggiava per Milano, la vita gli sembrava inutile e si sentiva sperduto. Il giorno dopo salì sul tram elettrico e incontrò un uomo che parlava di tutto e con tutti e non si era accorto di tornare in albergo e si mise a parlare anche con un canarino, poi nella sua stanza gli veniva voglia di prendersi a schiaffi per la sua condotta. Bisognava che lui prendesse ad ogni costo una risoluzione insomma, doveva vivere.
Capitolo X
Pochi gironi dopo si recò a Roma per prendervi dimora, scegliendola fra le tante perché gli sembrava più adatta ad ospitare forestieri. La scelta della casa, cioè d'una cameretta decente preso una famiglia discreta, gli costò molta fatica. Sulla porta del 4° piano c'erano due targhette Paleari e Papaino. Venne ad aprirgli un vecchio di 60 anni in mutande di tela (forse si stava lavando) gli sembrava fosse la serva, chiamò la figlia e le disse che c'era qualcuno che cercava la camera. La figlia Adriana disse al padre che il Terenzio si trovava a Napoli e gli fece notare com'era combinato. Adriana era una bella donna, vestiva di mezzo lutto, parlava piano, ella lo condusse nella sua stanza che era apprezzabile e si godeva un bel panorama. Adriano seppe che in quella casa oltre alla signora, Adriana, il babbo Paleari e il cognato Terenzio Papiano, viveva una donna che dà lezioni di pianoforte non in casa. Seppe anche che la sorella di Adriana era morta 6 mesi fa. Gli diede il nome, aveva paura che ella non gradisse. Si accorse che il padre Anselmo Paleari aveva spuma nel cervello, si scusò del modo decente in cui era apparso la prima volta, poi capì che egli era iscritto alla scuola teosofica e in seguito era stato rovinato finanziariamente. Adesso viveva con la misera pensione, quella vita astratta che si era creato studiando continuamente e spendeva molto denaro per i libri e si era fatta una piccola biblioteca. Il vecchio ora aveva letto cose spiritiche e aveva scoperto che la coinquilina Silvia Caporale, la pianista se ne intendeva di queste cose. Quest'ultima era una donna sopra i 40, era arrabbiata d'amore, in quanto era brutta e per non pensarci si ubriacava, si gettava sul letto e piangeva e Adriana la andava a consolare per pietà. Non veniva cacciata via perché il vecchio aveva bisogno di lei e perché dopo della morte della madre la signora aveva venduto la sa e affidato parte del denaro a loro, ma era scomparso. Adriana era invece religiosa e con il fatto dell'acquasantiera pensò che lui non era andato a messa da quando era andato via Pinzane e non aveva una vera fede. Quando leggeva vari libri di Palearu rifletteva sulla vita ma il vecchio gli metteva innanzi l'ombra della morte. Il modo di pensare di Paleari tutto filosofico, tutto strano su qualsiasi cosa e Adriano era stufo del suo modo di fare e pensava sempre alla morte. Un giorno mentre passeggiavano per Roma il vecchio disse che se un tempo era una città bella e viva adesso e una città morta.
Capitolo XI
Man mano che il padrone gli dava più familiarità egli si chiudeva in se stesso col rimorso di stare lì sotto falso nome e di dire bugie a se stesso e agli altri. SI diceva da solo che voleva rimanere libero ma ogni sera si affacciava alla finestra e guardava il fiume. Qualche sera vedeva la mammina in veste da camera, Adriana , intenta a innaffiare i fiori "Ecco la vita" pensava Adriano, ma ella per vari motivi parlava poco di lui. Spesso andava in luoghi deserti o in luoghi solitari, come era di moda. Una notte in piazza S. Pietro gli sembrava di sognare, ritornando per via Borgo Nuovo, s'imbatté in un ubriaco che lo fermò e gli dissi di star allegro e non pensare a nulla; Adriano pensò molto alle sue parole, non poteva certo andare ad ubriacarsi in una taverna e si diceva tra sé che il male che lo affligge è la democrazia, perché se governa uno sa che deve contentare molti; ma quando i governatori pensano solo a se stessi si ha una tirannia mascherata da libertà. Mentre tornava a casa c'erano 4 miserabili armati addosso ad una donna. Prese un bastone di ferro e cacciò quegli uomini per liberare la donna ma si ferì alla fronte e gli uscì sangue, la donna cominciò a gridare per chiedere aiuto, poi Adriano si lavò la fronte alla fontana, c'erano due guardie e la donna raccontò tutto ma egli non volle spargere denunzia. Silvia Caporale s'impicciò dei fatti di Adriano vedendolo stropicciarsi il dito perché era convinta che fosse vedovo. Adriana ne soffrì perché si ricordò della povera sorella. Adriano Meis si rese conto che conducendo una vita misteriosa e silenziosa aumentava la curiosità degli altri. Un giorno Silvia gli domandò da parte di Adriana perché non si faceva crescere i baffi, ma Adriana non voleva questo e si mise a piangere. Ci furono altre domande un po' indiscrete poi cominciò a parlare tranquillamente sempre raccontando molte bugie. Le due donne approvavano quel che diceva. Si era accorto che la Caporale si era innamorata di lui, ma a egli gli interessava Adriana ma il loro non andava più di pochi sguardi. Gli raccontò che quell'anellino glielo aveva regalato il nonno quando aveva 12 anni, mentre si trovava a Firenze. Le dice che lui si sente brutto e per questo non ha delle donne, e poi con quell'occhio, insomma si era accorto che la donna lo amava anche se non era bello. Mattia rifiutò felice, quello che diceva il signor Anselmo non gli sembrava più noioso, senza volerlo era crudele verso la donna invece Adriano arrossiva. Adriano e Adriana comunicavano con le voci dell'animo senza comuni parole. Un giorno Meis disse alla Caporale che si voleva fare operare da un'oculista e così fece. Dopo alcuni giorni di sera sentì due persone parlare, erano la Caporale e un'altro che parlavano di lui che forse era ricco, inoltre quest'uomo voleva parlare con Adriana. Mentre spiava si accorse che quell'uomo misterioso era rimasto solo, poi venne a parlargli Adriana (era suo cognato Papiano). Mentre spiava si aprì la persiana e Adriano lo invitò e gli presentò il cognato venuto da Napoli. Il cognato era segretario presso i Borbonici e non la finì più di parlare. Quindi disse che era tardi ed era ora di andare a dormire e Adriana lo condusse per mano come non lo aveva fatto mai. Adriano si era reso conto che non era accettato e c'era qualcosa di misterioso che non andava.
Capitolo XII
Un giorno Paleari disse a Meis se doveva andare a vedere la tragedia di Oreste in un teatrino di marionette e gettò lì una valanga di suoi pensieri che rimanevano tra le nuvole e chi lo ascoltava difficilmente seguitò a pensare che un protorico di quelle era Papiano, il cognato di Adriana, che considerava la vita come un gioco e si cacciava, in ogni intrigo. Papiano aveva circa 50 anni, alto robusto, calvo, occhi e mani irrequiete in quanto ogni sua domanda nascondeva un'insidia, pensava di andarsene ma rimaneva perché sentiva qualcosa per Adriana, inoltre c'era qualcosa di sospettoso in quell'uomo, la donna era diventata più triste invece la Caporale gli dava del lei, ma quando parlavano in segreto gli dava del tu. Una sera, sul terrazzino, dove ora non si riunivano più perché c'era Papiano e andò a vedere (sul baule c'era il fratello di Papiano, (soffriva di convulsioni epilettiche). Lì trovò la signorina Caporale che piangeva e Adriano approfittando della sua voglia di sfogarsi scoprì che ella rimaneva lì per via di 6 mila lire, che gli aveva dimostrato che aveva capito. Gli dice che aveva fatto molto per Rita, la sorella di Adriana e aveva venduto il pianoforte, il suo oggetto più caro. Gli disse che prima componeva melodie stupende, poi gli diede quelle 6 mila lire e aspettava da molto la restituzione che sarebbe avvenuta se avrebbe convinto Adriana a sposarsi col Papiani, non per amore, ma perché lei aveva 15.000 lire di dote, quelle della sorella che il marito alla morte della moglie dovette restituire ad Anselmo Paleari. Venne Adriana e i due smisero di parlare, poi venne il fratello di Papiano e Adriano (Scipione) tornò dentro. La signorina Caporale gli disse che se poteva fare qualcosa l'unico era lui. Adriano era stanco di avere uno dietro la porta e inoltre cercava di spronare Adriana, aveva aperto una sfida col Papiani. Questi non fece niente di particolare ma disse al fratello di non stare dietro la porta di Meis e rinfacciava alla cognato che era molto timida in sua presenza. Una sera Papiano arrivò in casa con un uomo dicendo che si chiamava Francesco Meis di Torino ed era cugino di Adriano. Disse che suo padre si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio, cioè di Paolo il padre di Adriano. Adriano capì come già aveva capito che era una falsa e quando licenziò quell'ubriaco, cioè quel parente, si rivolse a Papiano e in discussione seppe che aveva conosciuto quell'uomo all'agenzia delle imposta dove lavorava. Una sera giunse la voce dal corridoio di una spagnolo, e Adriano vi riconobbe quello che aveva conosciuto a Montecarlo; con il quale si era bisticciato a Nizza. Adriano, ebbe paura che Papiano sapesse qualcosa del suo passato, ma non era così, poiché si rese conto che era solo un caso. Circa 20 anni fa il marchese d'Auletta aveva sposato la figlia con Antonio Pantogada, ambasciatore spagnolo, 4 anni fa gli era morta la moglie a Pantogada rimanendo con una figlia sedicenne, che il nonno, cioè il marchese si tenne perché il genero aveva una vita difficile ed è per questo che si trovava a Roma. Un incontro con lui era inevitabile e per non farsi riconoscere seguì il consiglio della Caporale e andò dal dottore Ambrosini per farsi rimettere a posto l'occhio.
Capitolo XIII
L'operazione era riuscita benissimo però dovette stare 40 giorni al buio in camera sua. Mentre era lì pensava a tante cose e soffriva e l'unica che poteva confortarlo era Adriana. Il Pantogana rimase solo per pochi giorni e questo gli fece accrescere la rabbia. Paleari per confortarlo gli diceva una concezione filosofica, chiamata lanternismo e gli faceva capire che l'uomo ha avuto il triste privilegio di sentirsi vivere. La vita per il signor Anselmo era come un lanternismo acceso e quando si spegneva era per sempre. Questo e altro diceva il signor Anselmo per tenergli compagnia gli dice che per ogni cosa c'è un lanternino diverso non si mettono d'accordo e si sparpagliano. Gli recita una poesia di Niccolò Tommaseo, si sofferma nell'inutilità che la gente specie i poveri vanno in chiesa per pregare affinché un giorno saranno premiati. Si sofferma e dice che forse i colori sono soggettivi e l'uomo e paura delle tendore e soprattutto della morte perché non sà cosa avverrà dopo. Quel lumicino piagnucoloso ci fa vedere solo una parte di mondo e a modo suo. Il signor Anselmo voleva accendergli un lume per i suoi sperimenti, ma Adriano si accorse che gli altri non ne avevano ed egli non sospettava che la signorina Caporale e Papaiano si prendessero gioco di lui. Adriana credeva che si era fatto aggiustare l'occhio per vanità. La voce di Papiano era insopportabile e aveva capito che voleva che se ne andasse e gli parlava di Pepito Pantagone per distoglierlo da Adriana, le diceva che era proprio una bella ragazza, diversa da nonno, molto scontroso, e l'avrebbe col tempo conosciuta perché doveva essere invitata da loro per una seduta spiritica, Meis volle convincere Adriana a partecipare a una seduta, ma ella diceva che la religione glielo impediva, poi cambiò idea e disse per una sera soltanto. Il giorno seguente Papiano preparò la camera e gli disse che se la Caporale si sarebbe sentita bene poteva comunicare con un compagno d'Accademia morto a 18 anni. Max Oli, e una sera il suo spirito le si incarnò e cominciò a suonare musiche meravigliose e venne molta gente ad applaudirla. Dopo mezz'ora Papiano ritorno con la signorina Pantogada la sua governante e un pittore e dopo entrarono le due donne. SI sedettoro in posti e per questa seduta dovevano tenersi per mano. Il signor Anselmo spiegò che due colpi battute o sul tavolino o su due seggioline p percepire per via toccamenti, volevano dire sì, 3 colpi no, 4 buio, 5 parlate, 6 luce. Poi fecero silenzio e si concentrarono.
Capitolo XIV
Non succedeva nulla e voleva godersela, Meis come Adriana sapevano che era tutta una frode. Ad un tratto la signorina Caporale disse che la catena non era ben equilibrata. Vennero cambiati i posti e stavolta Meis poteva tenere la mano di Adriana. Ci furono quattro colpi quindi buio. Dopo la signorina Caporale ricevette da Max un pugno che quasi le sanguinavano le gengive, i nuovi ospiti e tutti si preoccuparono non era mai successo un simile fatto. Ella voleva lasciar perdere ma lui e il signor Anselmo insistettero per continuare la seduta, spensero il lanternino. Stavolta Meis strinse la mano di Adriana delicatamente. Il signor Anselmo mentre faceva delle domande ricevette delle risposte sentendo dei colpi, alcuni di questi li sentì, Adriano nella fronte, e capì che era senza dubbio. Papiano che gliel aveva dati. Mentre stavano continuando la seduta Meis sente qualche cosa strisciare vicino a lui e dice.di aver avvertita questa situazione e la signorina Pepita. Pantogada disse che era Minerva, la sua cagnetta. Nelle altre sedute successero sempre quelle piccole stranezze luci ecc e capì che era Scipione, il fratello di Papiano che le provocava. Un giorno lo spirito di Max prima fece una carezza a Pepita, poi gli altri dissero se poteva ricevere un bacio e lo ricevette sulla guancia (sempre al buio). Il Meis approfittò di quel momento e si scambiò il primo bacio con Adriana. Si accese la luce e pensava che si erano accorti di loro, ma essa fu accesa per prendere Scipione che era caduto a terra, Pepita e la governante scapparono via dalla stanza , mentre Paleari gridava di non rompere la catena. Credettero che questo fenomeno fosse stato causato da Max, ma Meis pensò che quel rumore misterioso sarebbe stato provocato dallo spirito del poveretto che si era affogato nella Stia e la notte fece brutti sogni, poiché quel colpo in camera sua non lo aveva sentito solo lui.
Capitolo XV
Quella notte si svegliò più volte, aveva paura di qualcosa e rifletteva sulle tante cose filosofiche che gli aveva detto Paleari. Dopo 40 giorni quuando riaprì le finestre non ebbe alcuna gioia nel vedere la luce e si guardò allo specchio del buon esito dell'operazione. SI vergognava d'aver preso parte alle sedute ma l'unica sua gioia era di aver baciato Adriana, sapeva che il Papiano voleva Adriana, e quelle volte gli aveva seduto la Caporale vicina. Adriano rifletté molte seduto sul divano che la sua libertà era stata limitata dalla scarsezza del denaro e poteva chiamarsi solitudine e noia in compagnia di se stesso.
Egli avrebbe vissuto con Adriana se non ci fossero state le convenzioni sociali e inoltre in quel momento era come se lui fosse un morto e doveva pensare anche alle due donne che aveva lasciato a Miragno. Mentre era assorto da questi pensieri bussò alla porta Adriana con la nota, ella e lui dopo scambio di quel bacio avevano accresciuto i loro sentimenti infatti Meis gli attirò la testa bionda sul petto e le passò una mano sui capelli. In quel momento non avrebbe mai pensato che sarebbe ritornato nel posto dal quale era fuggito, infatti fece capire ad Adriana che ormai sapeva tutto di quella casa e c'erano dei motivi per cui on poteva rimanere lì. Ripensò che doveva pagare il dottore e doveva prendere i soldi, lo sportello era aperto, molto strano infatti lo avevano derubato di 12 mila lire e gliene rimanevano cinquantatré. Adriana diventò pallida e stava svenendo, voleva chiamare il padre, ma cercò di trattenerla e ricontò i soldi. E Adriana cominciò a singhiozzare e Meis capì che era stato Papiano e il fratello durante una seduta spiritica. Non poteva denunziarlo perché era fuori da ogni legge, Adriana lo scongiurò piangendo di denunciarlo per liberi di Papiano che già l'aveva fata soffrire molto. Meis sapeva benissimo che non poteva denunciarlo e pensava di andarsene via e lasciare tutto com'era anche se credeva fosse una crudeltà nei confronti di Adriana, e inoltre in quella casa aveva trovato un po' di pace e trovata Adriana. Egli era confuso da questi pensieri uscì di casa come un matto. Vide la sua ombra e prese piacere a calpestarla, poi anche altre persone calpestavano la sua ombra ed egli in quella vide Mattia Pascal, morto alla Stia. In quel momento si sentì inutile, poiché chiunque poteva rubargli il denaro che possedeva e stanco che gli altri pestassero la sua ombra esposta per terra, montò sul primo tram.
Capitolo XVI
Ritornato a casa sentì che gli altri parlavano del denaro che gli era stato, ma egli disse che l'aveva trovato e gli altri rimasero meravigliati. Egli disse che erano dentro il portafogli, Adriana sapendo che stava mentendo gli disse che prima li aveva cercati e non li aveva trovati, Meis disse che non aveva guardato bene e la donna uscì dalla stanza piangendo. Papiano disse che doveva andarsene e quasi piangendo gli fece capire che i soldi li avevano trovati addossi del fratello Scipione, ma visto che lui li aveva trovati lui se ne andava. Egli sapeva benissimo che Meis l'aveva fatto apposta e piangeva perché aveva incolpato il fratello in qualunque i casi. Con quel pianto Meis pensava che Papiano restituiva quei soldi al suocero. Papiano infatti disse che sarebbe ritornato presto a Napoli dopo aver chiuso il fratello in una casa di salute e a fatto altre casette per sé e per il marchese, anzi invitò tutti a venire con lui. Rientrato in camera pensò ad Adriana e a tutto quello che voleva dirle. Venne la Caporale e gli disse che Adriana era inconsolabile perché non che aveva trovato il denaro Meis aveva avuto l'idea di farsi disprezzare da Adriana e fare la corte a Pepito e farsi prendere per pazzo. Era ora di andare a casa del marchese e partirono tutti. La casa del marchese Giglio d'Auletta era a Roma, di solito era affollata, ma quel giorno c'era solo il pittore che abbozzava il ritratto di Minerva, la cagnetta di Pepita. Quando scese ella con la governante Candita, si accorse che era una bella ragazza e accanto a,ei la bellezza di Adriana impallidiva, invece vide che la governante portava in testa una parrucca. Meis osserva la vecchia cagnetta e la descrive. Venne il marchese, un vecchietto che si dimostrò cordiale con loro e gli fece visitare la casa, lesse loro una lettera e si ricordò guardando un giglio di legno della mattina del 5 settembre 1960, una delle ultime passeggiate del sovrano. Per attuare il suo disegno Adriano si accostò a Pepita e cominciarono a discutere. Ella era impaziente e aspettava che il pittore le portasse il quadro di Minerva, non era pronto e dovette continuarlo e per punirlo del ritardo si mise a parlare con Meis. Minerva non stava ferma e il pittore si spazientiva e cominciò a sgridarla. Pepita si offese, pianse e svenne. Adriano e il pittore si scontrarono ma Meis venne fermato e gli altri gli avevano detto che ci pensavano loro che erano i testimoni, ma ci ripensarono e dissero che era meglio se si rivolgeva a due ufficiali dell'esercito. Ormai non aveva nulla da perdere, si presentò davanti gli ufficiali e disse che aveva avuto un affronto, un ufficiale lesse il codice cavalleresco e aveva detto che c'era stato un caso simile al suo a Pavia. Stanco di ascoltarlo gli disse che voleva battersi subito senza fare tutte quelle cose, ma lo scoppio di risa degli ufficiali lo fece vergognare e scappò via. Guardò le vetrine e a notte fonda si trovò sul Ponte Margherita e ripensò che questi due anni si era aggirato come u'ombra con l'illusione di vivere dopo la morte, aveva pensato di ritornare a casa a Miragno. Ma prima però decise di far morire Adriano Meis affogato, scelse un posto meno illuminato, si tolse il cappello, il bastone, il biglietto col nome, indirizzo e data e li posò sul parapetto del ponte e se ne andò portando con sé il denaro cercando la sua ombra.
Capitolo XVII
Arivò alla stazione in tempo per prendere il treno delle 12 e 10 per Pisa, quando il treno partì si fece un sospiro di sollievo come se si fosse tolto un macigno ed era felice di essere di nuovo Mattia Pascal. Sapeva che doveva ritornare in quell'inferno di casa ma si era reso conto che quella libertà era solo apparente ed era stato incosciente quando era fuori da ogni legge; in quei due anni era rimasto solo e aveva detto molte menzogne. Pensava a quello che sarebbe successo se i giornali avessero pubblicato del suicidio di Adriano Meis, quindi aspettò alcuni giorni a Pisa per leggere i giornali poi voleva sperimentare la resurrezione prima con il fratello e la cognata. Si fece tagliare i capelli e comprò il cappello di quelli che usava Mattia Pascal. Comprò una valigia e delal biancheria perché pensava che la moglie aveva buttato via tutto. Il giorno dopo quando lesse i giornali vide che c'erano poche parole per lui, molto confusionarie e alcuni dissero per amore di Pepita Pontegoda. Partì per Oneglia e trovò Roberto in villa per la vendemmia. Era felice di aver visto la bella riviera. Il servo lo fece entrare dicendo che era amico del padrone. Mentre aspettava nel salotto c'era un bambino che doveva esser e il figlio di Berto. Berto quando lo vide impallidì ma Mattia gli disse che era vivo, entrambi si abbracciarono e piansero. Mattia gli racconta della sua storia e voleva ritornare a Miragno, ma Berto gli disse che la moglie si era sposata con Pomino, ma se voleva poteva riprendersela e il secondo matrimonio si annullava. Berto lo lasciò solo e dopo fece venire il cognato che era avvocato, anche la moglie di Berto e la madre di lei gioirono a vederlo. L'avvocato gli disse che poteva riprendersi la moglie e il 2° matrimonio si annullava, poi l'avvocato gli disse che era meglio che non tornava visto che l'avevano trattato così ma egli replicò che non voleva fare più la parte del morto e voleva vendicarsi. Mangiò insieme a loro, il fratello gli disse che voleva accompagnarli l'indomani, ma Mattia insistette e se ne andò da solo quella sera. Partì col treno e alle 8 fu a Mragno.
Capitolo VIII
Mattia salì su un vagone di prima classe, voleva vendicarsi e provava odio, si era dimenticato di domandare a Berto del Malagna, della zia Scolastica, del podere della Stia ecc. Egli pensava che poteva trovare Pomino nel suo Palazzo e caso mai avrebbe avuto l'indirizzo dalla portinaia. Giunse lì e ci doveva essere aria di funerale, forse era morto il padre di Pomino. La portinaia lo fece aspettare davanti a una porta, forse stavano cenando. Bussò e la vedova Pescatore domandò chi fosse e Mattia disse che era lui, si stupirono ed ebbero tutti paura. Pomino cadde per terra, la vedova Pescatore fece un forte urlo. Mattia cercava Romilde ma Pomino era di là insieme alla figlioletta perché doveva darle il latte. Romilda con la bambina andò nella sala quando lo vide e lo fece calmare. Andò da Romilde la quale piange e gli disse dove era stato. Egli rispose che loro lo avevano creduto morto e ora doveva riprendersela ma non volle perché non voleva lasciare la bambina senza mamma e avevano fatto pari, lui aveva un figlio, figlio del Malagna e lui una figlia che è figlia di Pomino e se la voleva Dio un giorno si sarebbero sposati. La bambina era addormentata, Romilda la posò nella culla e andarono di là a discutere. Mattia si mise a guardare Romilda, mentre Pomino diventava geloso, Mattia capì che le voleva bene e le disse che li lasciava in pace e la lasciava a Pomino anche per amore della bambina e voleva passare di lì per fare delle chiacchierate. Pomino s'infurio e gli disse quasi che era meglio che fosse morto davvero, Mattia controbatté e dice che già era stato da suo fratello. Mattia gli domandò se c'era una lapide e se avevano portato fiori al cimitero e chiese come mai si erano sposati così presto. Pomino disse che dopo la sciagura avevano affidato una personcina alla donna e poi si era sposato con ella ed avevano avuto la bambina e fu gioia per tutti anche per il nonno che era morto da due mesi. Per quanto riguarda la zia Scolastica era viva ma non lo vedeva da due anni. SI misero a conversare aspettando l'alba del giorno in cui sarebbe pubblicamente risorto. Lasciò lì la valigia, scese a passeggiare per le strade, però nessuno lo riconosceva. Voleva ritornare indietro e cancellare tutto il patto, invece di andare al Municipio a farsi cancellare dal registro dei morti, andò in biblioteca dove trovò don Eligio Pellegrinotto che dopo avergli sentito pronunciare il nome gli fece una festa, lo portò in paese e lo fece riconoscere a tutti i quali lo tempestavano di domande ma egli rispondeva che aveva fatto il morto ed era venuto dell'altro mondo, il giornalista Lodetta, quello del foglietto gli portò il giornale di due anni fa dove c'era la notizia della sciagura, ma egli disse che il contenuto lo sapeva a memoria perché si leggeva all'inferno, poi nel giornale della domenica scrisse che era vivo a grosse lettere. Tra i pochi che non vollero farsi vedere furono i creditori e Batta Malagna, La domenica incontrò Oliva con il figlio di cinque anni, lei lo guardò negli occhi e gli disse tante cose. Ora vive con la zia Scolastica, dorme nel letto dove è morta la madre e passa molto tempo della sua giornata in biblioteca insieme a don Eligio e da sei mesi che aiutato da lui sta scrivendo questa storia anche se non sa a che fine gioverà agli altri. Comunque gli disse che il succo e che non si può vivere fuori dalla legge per bella o triste che sia. A volte va al cimitero del povero ignoto a portargli i fiori e se qualcuno lo segue e gli domanda chi fosse gli rispondeva io sono... Il fu Mattia Pascal!
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Mattia Pascal, il protagonista è un povero bibliotecario di Miragno, un paesino della Liguria. Egli si sente come fuori della vita (capitolo IV); travolto da rovesci economici, afflitto da continue angustie familiari, ma con il gusto di ridere di tutte le sue sciagure (capitolo V), decide allora di fuggire. La sua meta ideale è l'America. Ma raggiunta la città di Montecarlo, gioca alla roulette del famoso casinò e vince un'ingente somma. Divenuto ricco decide, in un primo tempo, di tornare in paese; rimane tuttavia sbalordito leggendo su un giornale la notizia del proprio suicidio: moglie e suocera quasi felici di sbarazzarsi in tal modo di lui, lo hanno erroneamente riconosciuto nel cadavere di un uomo annegato in un canale presso Miragno.
Gli si offre così, inaspettata, l'occasione per cambiare identità e vita: visto che tutti, al paese, lo credono morto, può costruirsi, con il finto nome da lui inventato Adriano Meis, una nuova esistenza. Dunque si attribuisce un passato ricco di fantastici ricordi, muta il proprio aspetto fisico (si fa tagliare la barba, si fa correggere lo strabismo dell'occhio ecc.), prende residenza in una grande città, Roma, dove vive a pensione nella casa di Anselmo Paleari, uno strambo personaggio. In casa Paleari vivono anche la signorina Caporale, una maestra di pianoforte fallita, che annega le proprie delusioni nel bere e che pratica lo spiritismo come medium, e l'ambiguo Terenzio Papiano, con il fratello epilettico. Mattia, alias Adriano Meis, s'innamora della figlia del proprietario, Adriana.
Tuttavia il protagonista non è appagato, e sente crescere in sé la coscienza del vuoto che gli sta intorno, certo, per lui era alienante la precedente condizione, con una vita familiare infelice e un lavoro insoddisfacente; essa però gli offriva perlomeno, nella trama abituale delle relazioni sociali, la sicurezza di esistere. Questa nuova condizione, sotto le mentite spoglie di Andriano Meis, gli ha consegnato una libertà solo apparente. Derubato da Papiano, non può denunciare il furto; privo di documenti, non può sposare Adriana. Dopo oltre due anni, Mattia decide di suicidare Adriano Meis.
Torna così al paese, dove scopre che tutti l'hanno dimenticato; la moglie si è risposata con Pomino, un vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia. Mattia non può reinserirsi nella vita normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri, scrivere le sue memorie, chiacchiere con l'unico amico che gli è rimasto, don Eligio, rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese. Da lì esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome.
Analisi del testo
Il più famoso romanzo di Pirandello uscì a puntate nel 1904 sulle pagine della rivista La Nuova Antologia. L'anno seguente fu tradotto con buon successo in tedesco. Nel 1910 uscì quindi in volume presso l'importante casa editrice Treves di Milano; in quello stesso anno il romanzo fu pubblicato in francese, a Ginevra e a Parigi. Era il primo libro di Pirandello a godere di una discreta fortuna. L'edizione definitiva del Fu Mattia Pascal uscì nel 1921 presso l'editore Bemporad di Firenze.Il racconto è svolto in prima persona: l'io narrante è lo stesso protagonista, Mattia Pascal, che riepiloga, alla fine della propria straordinaria avventura, quanto gli è accaduto. Bibliotecario in un piccolo paese ligure, Miragno, ha trovato l'occasione di fuggire dalla famiglia opprimente e da un lavoro monotono: giocando al casinò di Montecarlo vince infatti una cospicua somma, grazie a cui può conquistare finalmente la libertà negatagli dall'esistenza quotidiana. Assume così il nuovo nome, da lui inventato di Adriano Meis e cambia vita.
Mattia deve però dolorosamente constatare che nemmeno questa nuova condizione gli consente di raggiungere la felicità anzi , la sua solitudine si è fatta ancora più inesorabile. Non possiede infatti documenti che comprovino formalmente la sua identità: di fatto non esiste e lo constata amaramente al momento in cui vorrebbe sposare la donna di cui si è innamorato, Adriana, ma non può farlo. La sua evasione si conclude con un deludente fallimento. Il protagonista decide allora di recuperare la vecchia identità di Mattia Pascal e torna al paese natale, ansioso di mostrarsi vivo agli antichi compaesani, ma scopre di essere stato del tutto o quasi dimenticato da loro.. Di lui rimane solo la tomba, dove, dopo la sua improvvisa scomparsa, è stato erroneamente sepolto il cadavere di uno sconosciuto suicida. Mattia Pascal è dunque ormai solo il fu Mattia Pascal, un redivivo sopravvissuto a se stesso, un essere alienato ed emarginato, un individuo che non ha e non è più nulla nemmeno il proprio nome.
Commento
Il fu Mattia Pascal è un romanzo pubblicato da uno scrittore siciliano, Luigi Pirandello nel 1904 in cui la sua amara filosofia della vita si incarna più efficacemente in una felice invenzione narrativa.Seguendo la fallimentare esperienza del suo personaggio, Pirandello ritrae il sogno di un'evasione impossibile, il desiderio irrealizzabile di afferrare per sé un'identità che non sia quella imposta dal destino. L'esistenza di ogni persona è infatti governata da vicende che non possono essere controllate o mutate, è in balia di convenzioni sociali, rigide, e anonime, capaci di privarti della libertà.
La fuga non serve poiché riscattare la vita che abbiamo ricevuto non ci sono sblocchi o alternative difatti quello di Mattia è un tentativo fallito in partenza.
RIASSUNTO PER CAPITOLI
Capitolo IMattia Pascal, il suo nome, era questa l'unica cosa che sapeva. E lo usava anche come risposta alle persone che si recavano da lui per dei consigli. Mai e poi mai si sarebbe immaginato che un giorno non avrebbe più potuto usare questa sorta di battuta, mostra il suo dolore e senso di solitudine ed invita qualcuno a compiacerlo, dato che è gratis, perché chi non conosce la sua storia può immaginarlo come un disgraziato vuoto dentro, senza un padre e una madre, praticamente un niente, un morto per la società in cui vive. Però corregge il tiro è dice che in realtà il padre e la madre li ha conosciuti e che il suo è un caso talmente strano che ha deciso di narrarlo. Per circa due anni ha lavorato per due soldi, come guardiano della biblioteca di un certo monsignor Boccamazza che la lasciò al Comune. A dir la verità la biblioteca era in condizione talmente sudicie che non avrebbe avuto bisogno neanche di un guardiano dato che è stata visitata solo da qualche topo, e il Comune dimostrava una certa indifferenza sullo stato pietoso della conservazione dei suddetti libri. Anche Mattia Pascal la pensava come il Comune; egli aveva poca stima dei libri e non aveva in mente di scrivere un libro, ma siccome il suo caso l'ha colpito particolarmente pensò di scriverlo perché, magari, avrebbe incuriosito qualche lettore. Un libro che avrebbe scritto e depositato in questa biblioteca con l'obbligo di essere letto non prima di 50 anni dopo la sua terza morte. Egli afferma di essere già morto la prima volta in modo accidentale, la seconda invece... (la spiegherà nei capitoli successivi).
Capitolo II
Premessa seconda (filosofica) a mò di scusa.
Se Mattia ha iniziato a scrivere è merito di Eligio Pellegrinotto, un amico più che un reverendo per lui, che teneva in custodia i libri di Boccamazza e che avrebbe custodito anche il suo libro semmai fosse riuscito a finirlo. Quei libri erano tutti in disordine e polverosi, trattavano per la maggior parte di cose di chiesa. Il reverendo sostiene che Copernico (colui che ha scoperto che è la Terra a girare intorno al Sole e non il contrario) era un maledetto perché con le nuove teorie ha stravolto il modo di pensare precedente e, inoltre, afferma che siamo considerati una sorta di minuscoli esseri viventi (vermucci) che valgono meno di niente nell'Universo, ma non solo le persone ma anche le calamità come il disastro delle Antille non sono altro che sintomi dell'impazienza della Terra che ha sbuffato un po' di fuoco da una delle sue bocche. Don Eligio in qualche modo convince Mattia che l'uomo si distrae facilmente. Ad esempio l'uomo crede che il sole serva per illuminare il giorno e la luna e le stelle per illuminare la notte, dimenticandosi di essere un atomo piccolissimo che si azzuffa che fa addirittura a botte per un pezzo di terra.
Ora l'autore vuole raccontare la sua storia nel modo più breve possibile, senza obblighi o scrupoli di coscienza, perché si considera ormai fuori dalla vita.
Capitolo III
Mattia Pascal dice di non aver conosciuto bene il padre perché era morto quando aveva 4 anni, lasciando nell'agiatezza la moglie e due figli (Mattia cioè se stesso) e Roberto, due anni più di lui. Si dice che si era arricchito giocando a carte e facendo il commerciante con il suo trabaccolo, poi investì i soldi per acquistare buone terre ricche di olivi e vigneti e anche due case. Le cose andarono a peggiorare con la sua morte, quando la moglie inesperta si affidò al Malagna per gestirà l'eredità. Mattia lo soprannominò "la talpa" perché stava scavando la fossa sotto i loro piedi. La madre di Mattia stava sempre in casa e usciva solo per andare a messa e veniva torturata dalla cognata per convincerla a risposarsi con un pover uomo, Gerolamo Pomino, che aveva già un figlio. Zia Scolastica invece non si era mai voluta sposare con nessuno perché aveva paura che gli uomini la tradissero. Quando Mattia divenne adulto gran parte dei possedimenti se ne erano andati ma continuava insieme al fratello con quel tenore di vita, a cui la madre li aveva abituati da piccoli. La madre non li aveva mandati a scuola ma li aveva affidati al precettore Pinzane pensando che la sua istruzione gli sarebbe bastata. La zia Scolastica non era riuscita a convincere la madre a risposarsi e in qualche modo non faceva mancare il suo supporto. Mattia dovette mettersi gli occhiali per raddrizzare l'occhio, ma tutto sommato era in salute. A diciotto anni gli era cresciuto un barbone rossastro però aveva un brutto naso e decise di non portare più gli occhiali convinto di essere brutto anche se avesse avuto l'occhio sano, invece invidiava il fratello Berto che era più bello e appariscente di lui. Nel mentre il Malagna ogni volta che li andava trovare diceva che era costretto a vendere a poco a poco tutti i loro possedimenti per pagare i debiti. Berto fu fortunato a fare un matrimonio molto vantaggioso, viceversa Mattia con un aria un po' triste smette di raccontare e parla con don Eligio chiedendogli se vale la pena di parlare del suo matrimonio ed egli disse che era indispensabile e così continuò a scrivere il 4° capitolo.
Capitolo IV
Nel corso di una battuta di caccia Mattia vide Batta Malagna. Era un uomo dal pancione enorme e penzolante che non gli davano l'aspetto del ladro, ma rubava a loro danno. Secondo lui rubava per distrarsi dai suo problemi, come il fatto che era costretto a obbedire agli ordini impartiti dalla moglie Guendalina perché appartenente a un ceto superiore. Dopo il matrimonio la moglie del Malagna si era ammalata di un male inguaribile e ogni volta che il Malagna invitava a pranzo Mattia e Berto lo rimproverava perché gli faceva venire la tentazione di mangiare tutte quelle cose buone come il vino e i dolci e si veniva a creare una sorta di teatrino tra moglie e marito che tanto faceva divertire i due ragazzi. Il Malagna, quindi, fece contenta la moglie, ma quando venne a sapere che lei beveva e mangiava di nascosto, riprese a bere, ma lontano dagli occhi della moglie.
A quel punto che egli cominciò a rubare, forse rubava per il suo figliolo tanto desiderato ma che non aveva mai detto alla moglie perché malata e pure sterile. Dopo la morte, quasi scontata, della moglie Guendalina, il Malagna si rattristò molto e nonostante la sua ricchezza non si risposò, però si prese la figlia d'un fattore di campagna come prole desiderata, sana e robusta, aveva fatto tutto in fretta perché ormai non era un giovanotto. Questa ragazza si chiamava Oliva e Mattia ne era innamorato ma gli faceva rabbia il fatto che ormai appartenesse al Malagna. Eppure Mattia non si stupì del fatto che ella preferì i soldi del Malagna nonostante l'avesse sempre odiato. Erano passati alcuni anni e figli non se ne erano visti nella nuova coppia, Mattia pensava che era colpa del Malagna, troppo vecchio per mettere al mondo un figlio e non di certo di Oliva.
Intanto Mattia pensava a come investire il denaro e in questo si faceva aiutare da Gerolamo il Pomino, detto Mino, che frequentava sia lui che Berto. Mino gli raccontò che la serva del Malagna gli avevo proposto la figlia come sposa dopo la morte della prima moglie ma questi si rifiutò. Si fece dare da Mino l'indirizzo della serva e con la scusa della cambiale andò a cercare il Malagna a casa della cognata e di sua nipote. Lo colpì una ragazza in particolare (Romilda) e con una scusa promise che sarebbe ritornato un'altra volta. Quando Mattia riferì quanto accaduto a Pomino, entrambi pensarono che Romilda, la figlia della strega, fosse sicuramente onesta e che dovevano in qualche modo salvarla. Quindi Pomino doveva farsi notare da lei e con l'aiuto dell'amico Mattia avrebbero organizzato un incontro. Mattia voleva aiutare Pomino ma col frequentare Romilda non fece altro che complicare le cose perché la donna si era innamorata di lui. Si era innamorato pure lui ma nello stesso tempo gli parlava di Pomino, però un giorno ella non volle saperne di scherzi e di parlare dell'amore lontano di Pomino e si dichiarò. Mattia però non poteva e non voleva fuggire con lei e dopo alcuni giorni cercò una soluzione più onesta.
Però a Mattia arrivò una lettera da parte di Romilda in cui diceva che la loro relazione fosse finita, inizialmente non capì il perché ma tutto fu chiaro quando Oliva andò in casa sua (di Mattia) a parlare come faceva spesso con sua madre e disse che il Malagna si frequentava con un altra e voleva tornare dal suo babbo.
Mattia la fermò e gli mostrò la lettera facendogli capire che sono stati fregati entrambi, forse perché entrambi erano troppo innocenti per una famiglia che non faceva altro a pensare a se stessi.
Mattia gli spiegò che lei deve mentire al Malagna dicendogli che è tutto vero che non può avere figli e che invece lui può averli, e così fece. Un giorno si venne a sapere che il figlio di Romilda era nato dall'incontro nella gita in campagna con Mattia e così si vide costretto a sposarla, e ciò non fece di certo piacere alla "strega" (madre di Romilda).
Capitolo V
La strega non si sapeva dar pace del fatto che Mattia e sua figlia Romilda presto avrebbero avuto un figlio. Non solo si era introdotto in casa sua senza il suo permesso ma gli aveva rovinato anche la figlia, non gli perdonava neanche il fatto di aver messo incinta pure Oliva, compagna di suo fratello Batta Malagna. Era inviperita perché sapeva della gelosia che avrebbe avuto Romilda di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli allori; mentre il suo nell'angustia, nell'incertezza del domani e fra tutta quella guerra casalinga. Intanto lei era buttata lì su una poltrona tormentata da continue nausee. Fu peggio quando per salvare la Stia si dovette vendere le case, e la madre fu costretta ad entrare nell'inverno a casa sua. Mattia doveva cercarsi un lavoro, aveva pietà della madre perché voleva morire al più presto invece di rimanere in quell'inferno e aveva paura a lasciarla da sola. Aveva scritto a Roberto per tenersi in casa la madre, ma non poteva perché viveva sulla dote della moglie. La vedova Pescatore aveva paura che vivessero sulle 42 lire mensili. Un giorno andarono a far visita alla madre due vecchie serve e una di esse la invitò a vivere con lei. Quando Mattia tornò a casa vide la suocera con aria minacciosa e la madre che piangeva, quindi le ordinò di andarsene, ma Romilda gli disse che non poteva rimanere senza di lei. Due giorni dopo venne zia Scolastica a prendersi la madre, mentre la suocera faceva il pane, fu una scena buffa per Mattia, poiché la vedova Pescatore dalla rabbia si strappava le vesti di addosso. Mattia uscì per cercarsi un lavoro e lo trovò nella biblioteca Boccamazza con 60 lire al mese. Veniva a trovarlo sempre il vecchio bibliotecario Ronitelli, un uomo sordo e sempre legato ai libri, che morì 4 mesi dopo. Così Mattia si trovò solo a dar la caccia ai tanti topi che c'erano nella biblioteca e cominciò a leggere i libri, mentre quando era stanco chiudeva la biblioteca e andava al mare. Un giorno lo vennero a chiamare perché la moglie aveva le voglie, corse a casa e la suocera gli ordinò di andare a chiamare il dottore. Dopo fu mandato in farmacia, al ritorno gli dissero che una bambina era nata, l'altra stentava a venire alla luce. Egli era felice di avere due bambine, ma una morì pochi giorni dopo, l'altra morì prima di compiere un anno e nello stesso giorno morì sua madre. Il dolore lo assalì atrocemente e quella notte uscì e camminò disperatamente finché giunse al podere della Stia dove incontrò Filippo, un vecchio mugnaio, che cercò di consolarlo. Dopo alcuni giorni Roberto gli mandò 500 lire per fare una buona sepoltura alla madre, ma ci aveva già pensato la zia Scolastica e così il denaro se lo tenne per sé.
Capitolo VI
Dopo una delle solite scene con la suocera e con la moglie, Mattia era capitato a Montecarlo. Era fuggito dal paese a piedi, stanco della sua orribile vita con le 500 lire di Berto. Pensava di recarsi a Marsiglia e poi in America, sebbene avesse incontrato delle difficoltà non sarebbero state come quelle che aveva patito fino ad allora. Poi vedendo e comprando un opuscolo dove c'era disegnata la roulette pensò di recarsi a Montecarlo in cerca di fortuna. Entrò nel casinò e sentenziò che la gente non va lì per ammirare quelle sale ma perché ha il vizio del gioco e sperano un giorno di vincere come un uomo che essendo fissato col numero 12 anche se non voleva uscire aveva perso parecchi denari. Prima si mise a osservare come procedeva il gioco poi punto qualcosa sul 25 e vinse ma un uomo si prese il denaro con prepotenza dicendo che era suo. Lasciò perdere e si mise a osservare che la maggior parte della gente quando perdeva ripuntava ancora. Cominciò a giocare, inizialmente perse ma poi cominciò a vincere puntando sempre sul 35. Ad un certo punto uscì a prendere una boccata d'aria. Poi riprese a giocare e vinceva sempre, però c'era un uomo che voleva trattenerlo perché gli avrebbe svaligiato la banca. Quell'uomo lo seguì nel treno di ritorno a Nizza e voleva invitarlo a pranzo nel suo hotel. Gli disse che quella donna doveva avere vinto molto seguendo il suo gioco e gli chiese come facesse ad avere quella fortuna. Mattia rispose che quello era stato proprio un giorno fortunato. Quell'uomo che parlava spagnolo gli disse che voleva puntare forte insieme a lui, Mattia disse di no ed era arrabbiato poiché non capiva quasi niente di quello che diceva. Ora erano le due, salì su una vettura e si prenotò una stanza d'albergo e contò che aveva vinto 11.000 lire. La notte non prese sonno e pensava a quello che avrebbe fatto, era indeciso, non sapeva se ritornare a casa e ricominciare la vita di ogni giorno o andare in America o fermarsi a Nizza. Ritorna a Montecarlo e vi stette per 12 giorni, in 9 giorni vinse tantissimo, gli ultimi giorni cominciò a perdere. L'ultimo giorno tornò perché in giardino si era ucciso un uomo che aveva visto parecchie volte giocare, ma perdeva sempre. Egli prese un fazzoletto e gli coprì il volto e la gente lo sgridò perché toglieva lo spettacolo. Così Mattia con le sue 82.000 lire ritornò a Nizza per ripartire lo stesso giorno, senza immaginarsi quello che gli sarebbe successo.
Capitolo VII
Mentre era sul treno del ritorno pensava di riscattare la Stia, non poteva dormire poiché gli veniva in mente il cadavere di quel giovinetto. Immaginava la faccia della moglie e della suocera vedendolo tornare dopo 13 giorni con tanto di denaro e pensava a tanti creditori. Alla prima stazione italiana comprò un giornale e cominciò a leggerlo, erano le otto e un quarto e fra un'oretta sarebbe arrivato. Mentre leggeva il giornale lesse del suicidio di Mattia Pascal, un bibliotecario, che era stato in stato di avanzata putrefazione. Mattia Pascal capì che si trattava di lui e lesse più volte quelle righe e i sospetti andarono sulla suocera che l'avrebbe fatto per interesse suo. Sceso dal treno ad Alenga voleva accertarsi che la sua notizia fosse stata smentita. Telegrafò al direttore del giornale di Miragno per avere il quotidiano di quella domenica, per sapere notizie più dettagliate del fatto avvenuto sabato 28. Scelse come nome Carlo Martello, poi andò dall'ufficiale telegrafico per fare arrivare a lui 15 copie del Foglietto di Miragno. Il giorno seguente arrivò il Foglietto, mentre alloggiava nella Locanda del Parlamentino. Lesse il pezzo che riguardava lui e diceva che la famiglia non vedendolo tornare dal suo lavoro l'aveva cercato e non l'aveva trovato e poi era stato ritrovato morto nello stagno dello Stia; morto forse per mancanza di denaro e per la sofferenza avuta per la morte della figlie e della madre ecc.
Mattia non ce la fece a leggere l'articolo e non si immaginava che i concittadini lo stimassero per le sue virtù. Egli pensò che era stato riconosciuto forse perché la sera prima aveva trascorso la notte lì, nella Stia. Egli approfittò della morte di quel poveraccio per rifarsi un'altra vita, poi della moglie e della suocera non gliene importava nulla perché se lo avessero guardato meglio si sarebbero accorti che non era lui. Comunque infine fece un respiro di sollievo.
Capitolo VIII - Adriano Meis
Mattia Pascal resosi conto che gli altri lo credevano morto, ormai era un uomo libero da ogni obbligo e padrone di se stesso. Voleva cambiare totalmente in modo che così avrebbe vissuto due vite. Per cambiare aspetto ad Alenga si fece accorciare la barba, si sentiva un po' a disagio perché si vedeva spuntare un piccolo mento. C'era il naso piccolo e l'occhio storto. Pensò di comprarsi un paio di cchiali e farsi crescere i capelli in modo da sembrare un filosofo tedesco. Il nome se lo cercò mentre viaggiava in treno, infatti ascoltando la discussione di due signori, molto eruditi che discutevano di iconografia cristiana gli piacque il nome dell'imperatore Adriano e se lo ripeté più volte. Quando questi scesero dal treno Mattia si affacciò dal finestrino e sentì che i due parlavano di un certo Camillo de Meis, quindi tolse il "da" e prese il Meis. Cosìsi battezzò tra sé Adriano Meis. Ora Mattia o meglio dire Adriano Meis era felice di essere libero e tutto gli sembrava buffo. Ad un certo punto si vide nel dito l'anello del matrimonio dove era incisa la data del suo matrimonio e lo intombò facendo un bel gesto. Ora Adriano Meis si doveva creare un passato, pensò che non era opportuno dire il luogo quindi decise che era nato su un piroscafo in viaggio verso l'America, suo padre si chiamava Paolo, poi ci ripensò e riassumendo la sua vita:
a) figlio unico di Paolo Meis
b) Nato in Argentina, senz'altra designazione
c) Venuto in Italia di pochi mesi
d) senza memoria ne quasi notizia dei genitori (padre morto in America e madre quando aveva tre anni)
vissuto col nonno un po' dappertutto a Nizza, a Torino ecc.
Mentre viaggiava per le città d'Italia non pensava solo al presente ma anche al passato che si doveva costruire osservando i ragazzini e s'immaginò il nonno. Lui si vedeva un po' buffo coi capelli lunghi e con gli occhiali. Parlava poco con la gente ed essa credeva che fosse straniero. Mentre viaggiava rifletteva su tantissime cose senza rendersene conto. Aveva provato di essere analfabeta. Fece un tuffo nel passato e si chiedeva se la moglie fosse vestita in lutto, ma era sicuro di no. Si mise a viaggiare per qualche tempo, poi pensò che il denaro doveva bastargli per tutta la vita e doveva trovarsi un lavoro ma senza documenti non poteva, quindi doveva adattarsi a vivere con 200 lire al mese.
Dopo quel lungo girovagare senza nessuno con cui parlare cominciò a sentirsi solo, e un triste giorno di novembre un vecchietto con un cane gli si mostrò davanti. Adriano pensava di comprarlo così avrebbe avuto un amico fedele, gli domandò il prezzo che era 25 lire, voleva acquistarlo ma pensò che non poteva perché avrebbe dovuto pagare la tassa, così non lo comprò. Questa è la prima volta che quella vita che gli era sembrata bella con una libertà sconfinata, era tiranna perché non gli consentiva di tenere un cagnolino.
Capitolo IX
Il primo inverno passò tra gli svaghi dei viaggi e nell'ebrezza della nuova libertà e non importava se c'era nebbia o sole, freddo o caldo. ora doveva cercarsi una dimora stabile ma poi gli veniva il pensiero delle tasse dei documenti ecc.
L'inverno ispirava in lui queste riflessioni malinconiche, era Natale e desiderava il tepore, d'un cantuccio caro, una casa. Quindi rimpiange la sua prima casa e immagina di andare a casa della moglie e dirle che dai superiori aveva avuto il permesso di passare le feste in famiglia. Un giorno alla trattoria fece amicizia con il Cavalier Tito Lenzi che gli diede un biglietto da visita. Adriano Meis ci restò male perché non ne aveva. L'uomo faceva bei discorsi e conosceva il latino e faceva delle domande all'altro che rispondeva con poche parole. Quando seppe che era nato in Argentina gli fece i complimenti. Gli disse che lui abitava da solo, ma precedentemente aveva avuto storie amorose. Adriano si accorse presto che mentiva, e si sentiva rattristato dal fatto che lui odiava le bugie, ma doveva dirle, inoltre non poteva avere dei veri amici con cui confidarsi e raccontare la sua assurda storia. Si stava rendendo conto degli inconvenienti della fortuna, si era conciato in quel modo per piacere agli altri e la solitudine lo assaliva, quando voleva prendere decisioni usciva dall'albergo e passeggiava per Milano, la vita gli sembrava inutile e si sentiva sperduto. Il giorno dopo salì sul tram elettrico e incontrò un uomo che parlava di tutto e con tutti e non si era accorto di tornare in albergo e si mise a parlare anche con un canarino, poi nella sua stanza gli veniva voglia di prendersi a schiaffi per la sua condotta. Bisognava che lui prendesse ad ogni costo una risoluzione insomma, doveva vivere.
Capitolo X
Pochi gironi dopo si recò a Roma per prendervi dimora, scegliendola fra le tante perché gli sembrava più adatta ad ospitare forestieri. La scelta della casa, cioè d'una cameretta decente preso una famiglia discreta, gli costò molta fatica. Sulla porta del 4° piano c'erano due targhette Paleari e Papaino. Venne ad aprirgli un vecchio di 60 anni in mutande di tela (forse si stava lavando) gli sembrava fosse la serva, chiamò la figlia e le disse che c'era qualcuno che cercava la camera. La figlia Adriana disse al padre che il Terenzio si trovava a Napoli e gli fece notare com'era combinato. Adriana era una bella donna, vestiva di mezzo lutto, parlava piano, ella lo condusse nella sua stanza che era apprezzabile e si godeva un bel panorama. Adriano seppe che in quella casa oltre alla signora, Adriana, il babbo Paleari e il cognato Terenzio Papiano, viveva una donna che dà lezioni di pianoforte non in casa. Seppe anche che la sorella di Adriana era morta 6 mesi fa. Gli diede il nome, aveva paura che ella non gradisse. Si accorse che il padre Anselmo Paleari aveva spuma nel cervello, si scusò del modo decente in cui era apparso la prima volta, poi capì che egli era iscritto alla scuola teosofica e in seguito era stato rovinato finanziariamente. Adesso viveva con la misera pensione, quella vita astratta che si era creato studiando continuamente e spendeva molto denaro per i libri e si era fatta una piccola biblioteca. Il vecchio ora aveva letto cose spiritiche e aveva scoperto che la coinquilina Silvia Caporale, la pianista se ne intendeva di queste cose. Quest'ultima era una donna sopra i 40, era arrabbiata d'amore, in quanto era brutta e per non pensarci si ubriacava, si gettava sul letto e piangeva e Adriana la andava a consolare per pietà. Non veniva cacciata via perché il vecchio aveva bisogno di lei e perché dopo della morte della madre la signora aveva venduto la sa e affidato parte del denaro a loro, ma era scomparso. Adriana era invece religiosa e con il fatto dell'acquasantiera pensò che lui non era andato a messa da quando era andato via Pinzane e non aveva una vera fede. Quando leggeva vari libri di Palearu rifletteva sulla vita ma il vecchio gli metteva innanzi l'ombra della morte. Il modo di pensare di Paleari tutto filosofico, tutto strano su qualsiasi cosa e Adriano era stufo del suo modo di fare e pensava sempre alla morte. Un giorno mentre passeggiavano per Roma il vecchio disse che se un tempo era una città bella e viva adesso e una città morta.
Capitolo XI
Man mano che il padrone gli dava più familiarità egli si chiudeva in se stesso col rimorso di stare lì sotto falso nome e di dire bugie a se stesso e agli altri. SI diceva da solo che voleva rimanere libero ma ogni sera si affacciava alla finestra e guardava il fiume. Qualche sera vedeva la mammina in veste da camera, Adriana , intenta a innaffiare i fiori "Ecco la vita" pensava Adriano, ma ella per vari motivi parlava poco di lui. Spesso andava in luoghi deserti o in luoghi solitari, come era di moda. Una notte in piazza S. Pietro gli sembrava di sognare, ritornando per via Borgo Nuovo, s'imbatté in un ubriaco che lo fermò e gli dissi di star allegro e non pensare a nulla; Adriano pensò molto alle sue parole, non poteva certo andare ad ubriacarsi in una taverna e si diceva tra sé che il male che lo affligge è la democrazia, perché se governa uno sa che deve contentare molti; ma quando i governatori pensano solo a se stessi si ha una tirannia mascherata da libertà. Mentre tornava a casa c'erano 4 miserabili armati addosso ad una donna. Prese un bastone di ferro e cacciò quegli uomini per liberare la donna ma si ferì alla fronte e gli uscì sangue, la donna cominciò a gridare per chiedere aiuto, poi Adriano si lavò la fronte alla fontana, c'erano due guardie e la donna raccontò tutto ma egli non volle spargere denunzia. Silvia Caporale s'impicciò dei fatti di Adriano vedendolo stropicciarsi il dito perché era convinta che fosse vedovo. Adriana ne soffrì perché si ricordò della povera sorella. Adriano Meis si rese conto che conducendo una vita misteriosa e silenziosa aumentava la curiosità degli altri. Un giorno Silvia gli domandò da parte di Adriana perché non si faceva crescere i baffi, ma Adriana non voleva questo e si mise a piangere. Ci furono altre domande un po' indiscrete poi cominciò a parlare tranquillamente sempre raccontando molte bugie. Le due donne approvavano quel che diceva. Si era accorto che la Caporale si era innamorata di lui, ma a egli gli interessava Adriana ma il loro non andava più di pochi sguardi. Gli raccontò che quell'anellino glielo aveva regalato il nonno quando aveva 12 anni, mentre si trovava a Firenze. Le dice che lui si sente brutto e per questo non ha delle donne, e poi con quell'occhio, insomma si era accorto che la donna lo amava anche se non era bello. Mattia rifiutò felice, quello che diceva il signor Anselmo non gli sembrava più noioso, senza volerlo era crudele verso la donna invece Adriano arrossiva. Adriano e Adriana comunicavano con le voci dell'animo senza comuni parole. Un giorno Meis disse alla Caporale che si voleva fare operare da un'oculista e così fece. Dopo alcuni giorni di sera sentì due persone parlare, erano la Caporale e un'altro che parlavano di lui che forse era ricco, inoltre quest'uomo voleva parlare con Adriana. Mentre spiava si accorse che quell'uomo misterioso era rimasto solo, poi venne a parlargli Adriana (era suo cognato Papiano). Mentre spiava si aprì la persiana e Adriano lo invitò e gli presentò il cognato venuto da Napoli. Il cognato era segretario presso i Borbonici e non la finì più di parlare. Quindi disse che era tardi ed era ora di andare a dormire e Adriana lo condusse per mano come non lo aveva fatto mai. Adriano si era reso conto che non era accettato e c'era qualcosa di misterioso che non andava.
Capitolo XII
Un giorno Paleari disse a Meis se doveva andare a vedere la tragedia di Oreste in un teatrino di marionette e gettò lì una valanga di suoi pensieri che rimanevano tra le nuvole e chi lo ascoltava difficilmente seguitò a pensare che un protorico di quelle era Papiano, il cognato di Adriana, che considerava la vita come un gioco e si cacciava, in ogni intrigo. Papiano aveva circa 50 anni, alto robusto, calvo, occhi e mani irrequiete in quanto ogni sua domanda nascondeva un'insidia, pensava di andarsene ma rimaneva perché sentiva qualcosa per Adriana, inoltre c'era qualcosa di sospettoso in quell'uomo, la donna era diventata più triste invece la Caporale gli dava del lei, ma quando parlavano in segreto gli dava del tu. Una sera, sul terrazzino, dove ora non si riunivano più perché c'era Papiano e andò a vedere (sul baule c'era il fratello di Papiano, (soffriva di convulsioni epilettiche). Lì trovò la signorina Caporale che piangeva e Adriano approfittando della sua voglia di sfogarsi scoprì che ella rimaneva lì per via di 6 mila lire, che gli aveva dimostrato che aveva capito. Gli dice che aveva fatto molto per Rita, la sorella di Adriana e aveva venduto il pianoforte, il suo oggetto più caro. Gli disse che prima componeva melodie stupende, poi gli diede quelle 6 mila lire e aspettava da molto la restituzione che sarebbe avvenuta se avrebbe convinto Adriana a sposarsi col Papiani, non per amore, ma perché lei aveva 15.000 lire di dote, quelle della sorella che il marito alla morte della moglie dovette restituire ad Anselmo Paleari. Venne Adriana e i due smisero di parlare, poi venne il fratello di Papiano e Adriano (Scipione) tornò dentro. La signorina Caporale gli disse che se poteva fare qualcosa l'unico era lui. Adriano era stanco di avere uno dietro la porta e inoltre cercava di spronare Adriana, aveva aperto una sfida col Papiani. Questi non fece niente di particolare ma disse al fratello di non stare dietro la porta di Meis e rinfacciava alla cognato che era molto timida in sua presenza. Una sera Papiano arrivò in casa con un uomo dicendo che si chiamava Francesco Meis di Torino ed era cugino di Adriano. Disse che suo padre si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio, cioè di Paolo il padre di Adriano. Adriano capì come già aveva capito che era una falsa e quando licenziò quell'ubriaco, cioè quel parente, si rivolse a Papiano e in discussione seppe che aveva conosciuto quell'uomo all'agenzia delle imposta dove lavorava. Una sera giunse la voce dal corridoio di una spagnolo, e Adriano vi riconobbe quello che aveva conosciuto a Montecarlo; con il quale si era bisticciato a Nizza. Adriano, ebbe paura che Papiano sapesse qualcosa del suo passato, ma non era così, poiché si rese conto che era solo un caso. Circa 20 anni fa il marchese d'Auletta aveva sposato la figlia con Antonio Pantogada, ambasciatore spagnolo, 4 anni fa gli era morta la moglie a Pantogada rimanendo con una figlia sedicenne, che il nonno, cioè il marchese si tenne perché il genero aveva una vita difficile ed è per questo che si trovava a Roma. Un incontro con lui era inevitabile e per non farsi riconoscere seguì il consiglio della Caporale e andò dal dottore Ambrosini per farsi rimettere a posto l'occhio.
Capitolo XIII
L'operazione era riuscita benissimo però dovette stare 40 giorni al buio in camera sua. Mentre era lì pensava a tante cose e soffriva e l'unica che poteva confortarlo era Adriana. Il Pantogana rimase solo per pochi giorni e questo gli fece accrescere la rabbia. Paleari per confortarlo gli diceva una concezione filosofica, chiamata lanternismo e gli faceva capire che l'uomo ha avuto il triste privilegio di sentirsi vivere. La vita per il signor Anselmo era come un lanternismo acceso e quando si spegneva era per sempre. Questo e altro diceva il signor Anselmo per tenergli compagnia gli dice che per ogni cosa c'è un lanternino diverso non si mettono d'accordo e si sparpagliano. Gli recita una poesia di Niccolò Tommaseo, si sofferma nell'inutilità che la gente specie i poveri vanno in chiesa per pregare affinché un giorno saranno premiati. Si sofferma e dice che forse i colori sono soggettivi e l'uomo e paura delle tendore e soprattutto della morte perché non sà cosa avverrà dopo. Quel lumicino piagnucoloso ci fa vedere solo una parte di mondo e a modo suo. Il signor Anselmo voleva accendergli un lume per i suoi sperimenti, ma Adriano si accorse che gli altri non ne avevano ed egli non sospettava che la signorina Caporale e Papaiano si prendessero gioco di lui. Adriana credeva che si era fatto aggiustare l'occhio per vanità. La voce di Papiano era insopportabile e aveva capito che voleva che se ne andasse e gli parlava di Pepito Pantagone per distoglierlo da Adriana, le diceva che era proprio una bella ragazza, diversa da nonno, molto scontroso, e l'avrebbe col tempo conosciuta perché doveva essere invitata da loro per una seduta spiritica, Meis volle convincere Adriana a partecipare a una seduta, ma ella diceva che la religione glielo impediva, poi cambiò idea e disse per una sera soltanto. Il giorno seguente Papiano preparò la camera e gli disse che se la Caporale si sarebbe sentita bene poteva comunicare con un compagno d'Accademia morto a 18 anni. Max Oli, e una sera il suo spirito le si incarnò e cominciò a suonare musiche meravigliose e venne molta gente ad applaudirla. Dopo mezz'ora Papiano ritorno con la signorina Pantogada la sua governante e un pittore e dopo entrarono le due donne. SI sedettoro in posti e per questa seduta dovevano tenersi per mano. Il signor Anselmo spiegò che due colpi battute o sul tavolino o su due seggioline p percepire per via toccamenti, volevano dire sì, 3 colpi no, 4 buio, 5 parlate, 6 luce. Poi fecero silenzio e si concentrarono.
Capitolo XIV
Non succedeva nulla e voleva godersela, Meis come Adriana sapevano che era tutta una frode. Ad un tratto la signorina Caporale disse che la catena non era ben equilibrata. Vennero cambiati i posti e stavolta Meis poteva tenere la mano di Adriana. Ci furono quattro colpi quindi buio. Dopo la signorina Caporale ricevette da Max un pugno che quasi le sanguinavano le gengive, i nuovi ospiti e tutti si preoccuparono non era mai successo un simile fatto. Ella voleva lasciar perdere ma lui e il signor Anselmo insistettero per continuare la seduta, spensero il lanternino. Stavolta Meis strinse la mano di Adriana delicatamente. Il signor Anselmo mentre faceva delle domande ricevette delle risposte sentendo dei colpi, alcuni di questi li sentì, Adriano nella fronte, e capì che era senza dubbio. Papiano che gliel aveva dati. Mentre stavano continuando la seduta Meis sente qualche cosa strisciare vicino a lui e dice.di aver avvertita questa situazione e la signorina Pepita. Pantogada disse che era Minerva, la sua cagnetta. Nelle altre sedute successero sempre quelle piccole stranezze luci ecc e capì che era Scipione, il fratello di Papiano che le provocava. Un giorno lo spirito di Max prima fece una carezza a Pepita, poi gli altri dissero se poteva ricevere un bacio e lo ricevette sulla guancia (sempre al buio). Il Meis approfittò di quel momento e si scambiò il primo bacio con Adriana. Si accese la luce e pensava che si erano accorti di loro, ma essa fu accesa per prendere Scipione che era caduto a terra, Pepita e la governante scapparono via dalla stanza , mentre Paleari gridava di non rompere la catena. Credettero che questo fenomeno fosse stato causato da Max, ma Meis pensò che quel rumore misterioso sarebbe stato provocato dallo spirito del poveretto che si era affogato nella Stia e la notte fece brutti sogni, poiché quel colpo in camera sua non lo aveva sentito solo lui.
Capitolo XV
Quella notte si svegliò più volte, aveva paura di qualcosa e rifletteva sulle tante cose filosofiche che gli aveva detto Paleari. Dopo 40 giorni quuando riaprì le finestre non ebbe alcuna gioia nel vedere la luce e si guardò allo specchio del buon esito dell'operazione. SI vergognava d'aver preso parte alle sedute ma l'unica sua gioia era di aver baciato Adriana, sapeva che il Papiano voleva Adriana, e quelle volte gli aveva seduto la Caporale vicina. Adriano rifletté molte seduto sul divano che la sua libertà era stata limitata dalla scarsezza del denaro e poteva chiamarsi solitudine e noia in compagnia di se stesso.
Egli avrebbe vissuto con Adriana se non ci fossero state le convenzioni sociali e inoltre in quel momento era come se lui fosse un morto e doveva pensare anche alle due donne che aveva lasciato a Miragno. Mentre era assorto da questi pensieri bussò alla porta Adriana con la nota, ella e lui dopo scambio di quel bacio avevano accresciuto i loro sentimenti infatti Meis gli attirò la testa bionda sul petto e le passò una mano sui capelli. In quel momento non avrebbe mai pensato che sarebbe ritornato nel posto dal quale era fuggito, infatti fece capire ad Adriana che ormai sapeva tutto di quella casa e c'erano dei motivi per cui on poteva rimanere lì. Ripensò che doveva pagare il dottore e doveva prendere i soldi, lo sportello era aperto, molto strano infatti lo avevano derubato di 12 mila lire e gliene rimanevano cinquantatré. Adriana diventò pallida e stava svenendo, voleva chiamare il padre, ma cercò di trattenerla e ricontò i soldi. E Adriana cominciò a singhiozzare e Meis capì che era stato Papiano e il fratello durante una seduta spiritica. Non poteva denunziarlo perché era fuori da ogni legge, Adriana lo scongiurò piangendo di denunciarlo per liberi di Papiano che già l'aveva fata soffrire molto. Meis sapeva benissimo che non poteva denunciarlo e pensava di andarsene via e lasciare tutto com'era anche se credeva fosse una crudeltà nei confronti di Adriana, e inoltre in quella casa aveva trovato un po' di pace e trovata Adriana. Egli era confuso da questi pensieri uscì di casa come un matto. Vide la sua ombra e prese piacere a calpestarla, poi anche altre persone calpestavano la sua ombra ed egli in quella vide Mattia Pascal, morto alla Stia. In quel momento si sentì inutile, poiché chiunque poteva rubargli il denaro che possedeva e stanco che gli altri pestassero la sua ombra esposta per terra, montò sul primo tram.
Capitolo XVI
Ritornato a casa sentì che gli altri parlavano del denaro che gli era stato, ma egli disse che l'aveva trovato e gli altri rimasero meravigliati. Egli disse che erano dentro il portafogli, Adriana sapendo che stava mentendo gli disse che prima li aveva cercati e non li aveva trovati, Meis disse che non aveva guardato bene e la donna uscì dalla stanza piangendo. Papiano disse che doveva andarsene e quasi piangendo gli fece capire che i soldi li avevano trovati addossi del fratello Scipione, ma visto che lui li aveva trovati lui se ne andava. Egli sapeva benissimo che Meis l'aveva fatto apposta e piangeva perché aveva incolpato il fratello in qualunque i casi. Con quel pianto Meis pensava che Papiano restituiva quei soldi al suocero. Papiano infatti disse che sarebbe ritornato presto a Napoli dopo aver chiuso il fratello in una casa di salute e a fatto altre casette per sé e per il marchese, anzi invitò tutti a venire con lui. Rientrato in camera pensò ad Adriana e a tutto quello che voleva dirle. Venne la Caporale e gli disse che Adriana era inconsolabile perché non che aveva trovato il denaro Meis aveva avuto l'idea di farsi disprezzare da Adriana e fare la corte a Pepito e farsi prendere per pazzo. Era ora di andare a casa del marchese e partirono tutti. La casa del marchese Giglio d'Auletta era a Roma, di solito era affollata, ma quel giorno c'era solo il pittore che abbozzava il ritratto di Minerva, la cagnetta di Pepita. Quando scese ella con la governante Candita, si accorse che era una bella ragazza e accanto a,ei la bellezza di Adriana impallidiva, invece vide che la governante portava in testa una parrucca. Meis osserva la vecchia cagnetta e la descrive. Venne il marchese, un vecchietto che si dimostrò cordiale con loro e gli fece visitare la casa, lesse loro una lettera e si ricordò guardando un giglio di legno della mattina del 5 settembre 1960, una delle ultime passeggiate del sovrano. Per attuare il suo disegno Adriano si accostò a Pepita e cominciarono a discutere. Ella era impaziente e aspettava che il pittore le portasse il quadro di Minerva, non era pronto e dovette continuarlo e per punirlo del ritardo si mise a parlare con Meis. Minerva non stava ferma e il pittore si spazientiva e cominciò a sgridarla. Pepita si offese, pianse e svenne. Adriano e il pittore si scontrarono ma Meis venne fermato e gli altri gli avevano detto che ci pensavano loro che erano i testimoni, ma ci ripensarono e dissero che era meglio se si rivolgeva a due ufficiali dell'esercito. Ormai non aveva nulla da perdere, si presentò davanti gli ufficiali e disse che aveva avuto un affronto, un ufficiale lesse il codice cavalleresco e aveva detto che c'era stato un caso simile al suo a Pavia. Stanco di ascoltarlo gli disse che voleva battersi subito senza fare tutte quelle cose, ma lo scoppio di risa degli ufficiali lo fece vergognare e scappò via. Guardò le vetrine e a notte fonda si trovò sul Ponte Margherita e ripensò che questi due anni si era aggirato come u'ombra con l'illusione di vivere dopo la morte, aveva pensato di ritornare a casa a Miragno. Ma prima però decise di far morire Adriano Meis affogato, scelse un posto meno illuminato, si tolse il cappello, il bastone, il biglietto col nome, indirizzo e data e li posò sul parapetto del ponte e se ne andò portando con sé il denaro cercando la sua ombra.
Capitolo XVII
Arivò alla stazione in tempo per prendere il treno delle 12 e 10 per Pisa, quando il treno partì si fece un sospiro di sollievo come se si fosse tolto un macigno ed era felice di essere di nuovo Mattia Pascal. Sapeva che doveva ritornare in quell'inferno di casa ma si era reso conto che quella libertà era solo apparente ed era stato incosciente quando era fuori da ogni legge; in quei due anni era rimasto solo e aveva detto molte menzogne. Pensava a quello che sarebbe successo se i giornali avessero pubblicato del suicidio di Adriano Meis, quindi aspettò alcuni giorni a Pisa per leggere i giornali poi voleva sperimentare la resurrezione prima con il fratello e la cognata. Si fece tagliare i capelli e comprò il cappello di quelli che usava Mattia Pascal. Comprò una valigia e delal biancheria perché pensava che la moglie aveva buttato via tutto. Il giorno dopo quando lesse i giornali vide che c'erano poche parole per lui, molto confusionarie e alcuni dissero per amore di Pepita Pontegoda. Partì per Oneglia e trovò Roberto in villa per la vendemmia. Era felice di aver visto la bella riviera. Il servo lo fece entrare dicendo che era amico del padrone. Mentre aspettava nel salotto c'era un bambino che doveva esser e il figlio di Berto. Berto quando lo vide impallidì ma Mattia gli disse che era vivo, entrambi si abbracciarono e piansero. Mattia gli racconta della sua storia e voleva ritornare a Miragno, ma Berto gli disse che la moglie si era sposata con Pomino, ma se voleva poteva riprendersela e il secondo matrimonio si annullava. Berto lo lasciò solo e dopo fece venire il cognato che era avvocato, anche la moglie di Berto e la madre di lei gioirono a vederlo. L'avvocato gli disse che poteva riprendersi la moglie e il 2° matrimonio si annullava, poi l'avvocato gli disse che era meglio che non tornava visto che l'avevano trattato così ma egli replicò che non voleva fare più la parte del morto e voleva vendicarsi. Mangiò insieme a loro, il fratello gli disse che voleva accompagnarli l'indomani, ma Mattia insistette e se ne andò da solo quella sera. Partì col treno e alle 8 fu a Mragno.
Capitolo VIII
Mattia salì su un vagone di prima classe, voleva vendicarsi e provava odio, si era dimenticato di domandare a Berto del Malagna, della zia Scolastica, del podere della Stia ecc. Egli pensava che poteva trovare Pomino nel suo Palazzo e caso mai avrebbe avuto l'indirizzo dalla portinaia. Giunse lì e ci doveva essere aria di funerale, forse era morto il padre di Pomino. La portinaia lo fece aspettare davanti a una porta, forse stavano cenando. Bussò e la vedova Pescatore domandò chi fosse e Mattia disse che era lui, si stupirono ed ebbero tutti paura. Pomino cadde per terra, la vedova Pescatore fece un forte urlo. Mattia cercava Romilde ma Pomino era di là insieme alla figlioletta perché doveva darle il latte. Romilda con la bambina andò nella sala quando lo vide e lo fece calmare. Andò da Romilde la quale piange e gli disse dove era stato. Egli rispose che loro lo avevano creduto morto e ora doveva riprendersela ma non volle perché non voleva lasciare la bambina senza mamma e avevano fatto pari, lui aveva un figlio, figlio del Malagna e lui una figlia che è figlia di Pomino e se la voleva Dio un giorno si sarebbero sposati. La bambina era addormentata, Romilda la posò nella culla e andarono di là a discutere. Mattia si mise a guardare Romilda, mentre Pomino diventava geloso, Mattia capì che le voleva bene e le disse che li lasciava in pace e la lasciava a Pomino anche per amore della bambina e voleva passare di lì per fare delle chiacchierate. Pomino s'infurio e gli disse quasi che era meglio che fosse morto davvero, Mattia controbatté e dice che già era stato da suo fratello. Mattia gli domandò se c'era una lapide e se avevano portato fiori al cimitero e chiese come mai si erano sposati così presto. Pomino disse che dopo la sciagura avevano affidato una personcina alla donna e poi si era sposato con ella ed avevano avuto la bambina e fu gioia per tutti anche per il nonno che era morto da due mesi. Per quanto riguarda la zia Scolastica era viva ma non lo vedeva da due anni. SI misero a conversare aspettando l'alba del giorno in cui sarebbe pubblicamente risorto. Lasciò lì la valigia, scese a passeggiare per le strade, però nessuno lo riconosceva. Voleva ritornare indietro e cancellare tutto il patto, invece di andare al Municipio a farsi cancellare dal registro dei morti, andò in biblioteca dove trovò don Eligio Pellegrinotto che dopo avergli sentito pronunciare il nome gli fece una festa, lo portò in paese e lo fece riconoscere a tutti i quali lo tempestavano di domande ma egli rispondeva che aveva fatto il morto ed era venuto dell'altro mondo, il giornalista Lodetta, quello del foglietto gli portò il giornale di due anni fa dove c'era la notizia della sciagura, ma egli disse che il contenuto lo sapeva a memoria perché si leggeva all'inferno, poi nel giornale della domenica scrisse che era vivo a grosse lettere. Tra i pochi che non vollero farsi vedere furono i creditori e Batta Malagna, La domenica incontrò Oliva con il figlio di cinque anni, lei lo guardò negli occhi e gli disse tante cose. Ora vive con la zia Scolastica, dorme nel letto dove è morta la madre e passa molto tempo della sua giornata in biblioteca insieme a don Eligio e da sei mesi che aiutato da lui sta scrivendo questa storia anche se non sa a che fine gioverà agli altri. Comunque gli disse che il succo e che non si può vivere fuori dalla legge per bella o triste che sia. A volte va al cimitero del povero ignoto a portargli i fiori e se qualcuno lo segue e gli domanda chi fosse gli rispondeva io sono... Il fu Mattia Pascal!
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