Riassunto:
Il primo libro di Pascoli fu edito a Livorno nel 1891; raccoglieva 22 poesie, alcune delle quali già comparse alla spicciolata su varie riviste o in opuscoli stampati per le nozze di amici e parenti. Nel 1890 la rivista fiorentina Vita nuova, diretta da Angiolo Orvieto (1869-1968), aveva pubblicato una sequenza di otto liriche, che recava già il titolo di Myricae, poi passato all'intera opera.
La raccolta in origine si sarebbe dovuta intitolare Erbucce. Il titolo definitivo, Myricae, è tratto da Pascoli dal secondo verso della IV egloga del poeta latino Virgilio (70-19 a.C): Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae (Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici). Le tamerici diventano così l'emblema della poesia umile e dimessa, non ambiziosa (le egloghe virgiliane si presentavano ai lettori del I secolo a.C. come componimenti di tono pastorale e basso, anche se era, in realtà, intessuta di cultura.
Negli anni successivi la raccolta si ampliò: nella seconda edizione (1882) contava 50 componimenti, nella terza (1894) 116, nella quarta (1897) 152. L'edizione definitiva del 1903 (stampata da Zanichelli di Bologna) comprenderà 156 liriche. A tale progressivo ampliamento si accompagnava, da parte dell'autore, un continuo lavoro di perfezionamento sulle singole liriche già pubblicate. Inoltre, a partire dalla terza edizione (1894), le poesie vennero suddivise in numerose sezioni (Dall'Alba al tramonto, Ricordi, Elegie, In campagna, Primavera, Dolcezze, Tristezze ecc.) alternate a liriche isolate (Il giorno dei morti, La civetta, Dialogo, Nozze ecc.).
Complessivamente Myriace si presenta come un personalissimo diario dei pensieri e delle esperienze dell'autore a diretto contatto con la vita della campagna, con le sue umili voci, con eventi della quotidianità, recuperati per lo più tra i felici ricordi dell'infanzia.
L'altro motivo saliente della raccolta è la triste ricostruzione delle proprie tragiche vicende familiari, a partire dall'uccisione del padre. Quest'ultima viene rievocata nella Prefazione aggiunta nell'edizione del 1894: Rimangano questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. Di qualche lacrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?.
Una campagna vera ma piena di segni
Pascoli si presenta fin da Myricae come il poeta della campagna. Disegna suggestivi quadretti di vita campestre, tra descrizioni di oggetti naturali (fiori, cespugli, o i numerosi uccelli di cui riporta addirittura il verso particolare) e i ricordi di momenti e aspetti della vita contadina. Ma il mondo della campagna entra nella poesia di Pascoli in una forma nuova, per nulla convenzionale: egli presta un'attenzione analitica al mondo delle cose concrete dei campi e perciò la sua è una campagna assai più vera di quella di tanti altri poeti, che avevano parlato un po' genericamente della natura. Pascoli, al contrario, conosceva bene ciò di cui parlava; perciò, per esempio, in un suo saggio in prosa rimproverò Leopardi per il fatto di aver mescolato, nel Sabato del villaggio, rose e viole in uno stesso mazzolino: fiori che non possono in nessun caso essere raccolti nella medesima stagione.
Il realismo, la fotografia dal vero, non era a ogni modo lo scopo finale di Pascoli, né gli interessano curiosità folkloristiche, malgrado le numerose ricerche sulla tradizione popolare che stavano fiorendo in quei decenni in Italia e altrove. A Pascoli stavano a cuore i riflessi interiori della vita contadina. Ciò che egli propone, dunque, è una raffigurazione psicologica e simbolica, mirata a cogliere le reazioni umane di fronte alla natura e ai suoi segni. Tali segni sono tutti concreti e realistici: solo partendo dalle rose e dalle viole vere la poesia pascoliana poteva suggerire analogie e simboli, facendosi rivelazione di realtà segrete e suggestioni musicali.
Il primo libro di Pascoli fu edito a Livorno nel 1891; raccoglieva 22 poesie, alcune delle quali già comparse alla spicciolata su varie riviste o in opuscoli stampati per le nozze di amici e parenti. Nel 1890 la rivista fiorentina Vita nuova, diretta da Angiolo Orvieto (1869-1968), aveva pubblicato una sequenza di otto liriche, che recava già il titolo di Myricae, poi passato all'intera opera.
La raccolta in origine si sarebbe dovuta intitolare Erbucce. Il titolo definitivo, Myricae, è tratto da Pascoli dal secondo verso della IV egloga del poeta latino Virgilio (70-19 a.C): Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae (Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici). Le tamerici diventano così l'emblema della poesia umile e dimessa, non ambiziosa (le egloghe virgiliane si presentavano ai lettori del I secolo a.C. come componimenti di tono pastorale e basso, anche se era, in realtà, intessuta di cultura.
Negli anni successivi la raccolta si ampliò: nella seconda edizione (1882) contava 50 componimenti, nella terza (1894) 116, nella quarta (1897) 152. L'edizione definitiva del 1903 (stampata da Zanichelli di Bologna) comprenderà 156 liriche. A tale progressivo ampliamento si accompagnava, da parte dell'autore, un continuo lavoro di perfezionamento sulle singole liriche già pubblicate. Inoltre, a partire dalla terza edizione (1894), le poesie vennero suddivise in numerose sezioni (Dall'Alba al tramonto, Ricordi, Elegie, In campagna, Primavera, Dolcezze, Tristezze ecc.) alternate a liriche isolate (Il giorno dei morti, La civetta, Dialogo, Nozze ecc.).
Complessivamente Myriace si presenta come un personalissimo diario dei pensieri e delle esperienze dell'autore a diretto contatto con la vita della campagna, con le sue umili voci, con eventi della quotidianità, recuperati per lo più tra i felici ricordi dell'infanzia.
L'altro motivo saliente della raccolta è la triste ricostruzione delle proprie tragiche vicende familiari, a partire dall'uccisione del padre. Quest'ultima viene rievocata nella Prefazione aggiunta nell'edizione del 1894: Rimangano questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. Di qualche lacrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?.
Una campagna vera ma piena di segni
Pascoli si presenta fin da Myricae come il poeta della campagna. Disegna suggestivi quadretti di vita campestre, tra descrizioni di oggetti naturali (fiori, cespugli, o i numerosi uccelli di cui riporta addirittura il verso particolare) e i ricordi di momenti e aspetti della vita contadina. Ma il mondo della campagna entra nella poesia di Pascoli in una forma nuova, per nulla convenzionale: egli presta un'attenzione analitica al mondo delle cose concrete dei campi e perciò la sua è una campagna assai più vera di quella di tanti altri poeti, che avevano parlato un po' genericamente della natura. Pascoli, al contrario, conosceva bene ciò di cui parlava; perciò, per esempio, in un suo saggio in prosa rimproverò Leopardi per il fatto di aver mescolato, nel Sabato del villaggio, rose e viole in uno stesso mazzolino: fiori che non possono in nessun caso essere raccolti nella medesima stagione.
Il realismo, la fotografia dal vero, non era a ogni modo lo scopo finale di Pascoli, né gli interessano curiosità folkloristiche, malgrado le numerose ricerche sulla tradizione popolare che stavano fiorendo in quei decenni in Italia e altrove. A Pascoli stavano a cuore i riflessi interiori della vita contadina. Ciò che egli propone, dunque, è una raffigurazione psicologica e simbolica, mirata a cogliere le reazioni umane di fronte alla natura e ai suoi segni. Tali segni sono tutti concreti e realistici: solo partendo dalle rose e dalle viole vere la poesia pascoliana poteva suggerire analogie e simboli, facendosi rivelazione di realtà segrete e suggestioni musicali.