Definizione:
Il Novecento è stato il secolo delle masse. Gli studiosi descrivono la società contemporanea con numerose espressioni (cultura di massa, comunicazione di massa, società di massa) in cui ricorre questo termine, massa, derivato da una parola del greco antico, che indicava la pasta per fare il pane. Dunque nel concetto di massa vi è un'idea di elasticità, di facile adattabilità a forme diverse, ma anche di informe. La massa è un insieme di individui sprovvisto di particolari requisiti, a differenza delle élite, gruppi ristretti che invece possiedono precisi privilegi politici, economici, sociali.
Numerosi intellettuali si confrontano nei primi decenni del Novecento sul valore e sui rischi connessi al concetto di massa, specie se tradotto nell'ambito sociale e politico. Al di là delle diverse interpretazioni, resta indubitabile che l'età contemporanea è segnata dall'emersione delle masse come nuove protagoniste della storia.
Nascita delle Società di massa
Per fare massa occorre, ovviamente, un'alta concentrazione di individui in spazi ristretti: migliaia di contadini dispersi in piccole unità agricole sul territorio non formano una massa; ma migliaia di operai concentrati nelle città industriali sì. Perché nascesse dunque la massa era prima necessario che si allargasse a macchia d'olio il processo di urbanizzazione, come risultato dell'espansione della grande industria.
Nel 1810 solo 12 europei su 100 vivevano in città; un secolo dopo erano 41 su 100. Nel 1850 le città europee con oltre 100 mila abitanti erano solo 42; sessant'anni dopo, nel 1910, il loro numero si era più che quadruplicato, passando a 183. Nel 1911 Londra contava già più di 3 milioni di abitanti; Parigi quasi due milioni. Ma le grandi metropoli industriali, affollate di manodopera a basso costo, che dall'agricoltura si travasava nelle fabbriche, si allargavano in modo caotico, con evidenti squilibri: il tessuto urbano si degradava, masse di lavoratori si addensavano nei quartieri dormitorio privi di strutture sociali e ricettacolo di malattie, aggressività, violenza.
Il primo effetto di questo sradicamento collettivo dalle campagne era un violento disorientamento culturale: spogliati della loro identità e immersi nel nuovo ambiente urbano, gli abitanti delle città soffrivano una triste condizione di solitudine, di anonimato. A peggiorarla era il lavoro ripetitivo e alienante in fabbrica, dove ormai dominavano le macchine: la prima catena di montaggio fu inaugurata da Henry Ford nel 1913. Poco dopo divenne celebre fantapolitico R.U.R. (1920), che narrava di un mondo dominato da uomini artificiali.
Parere personali di personaggi illustri
Il concetto filosofico di alienazione (dal latino alius, altro), elaborato nell'Ottocento ma assai più diffuso nel Novecento, esprime chiaramente questa nuova condizione: un alienarsi inteso come divenire altro, passare ad altro nel senso più ampio.
Il primo filosofo a parlare di alienazione in senso negativo fu Ludwig Feuebach (1804-72): egli definisce in questi termini l'effetto negativo della religione, in cui l'uomo separa da sé (aliena) i propri valori essenziali e li trasferisce alla divinità.
In seguito Karl Marx (1818-83) definì alienata la condizione degli operai nell'economia capitalistica: la loro attività lavorativa consiste solo nell'esecuzione di compiti manuali e ripetitivi, mentre il frutto del loro lavoro arricchisce soltanto l'imprenditore. Più in generale, secondo Marx, nella società borghese e capitalistica tutti gli uomini si rapportavano agli altri solo come produttori e possessori di merci: valgono cioè non per quello che sono, ma in base al valore di scambio che li caratterizza.
Perdono così le loro caratteristiche specificamente umane.
Più avanti il filosofo marxista Gyorgy Lukacs (in Storia e coscienza di classe, 1923) affiancò al concetto di alienazione il termine reificazione (dal latino res, cosa), per indicare una condizione, quella della società capitalistica, in cui tutto diviene cosa, anche la coscienza delle persone, e in cui ciò che conta è solo produrre, vendere, consumare.
La massificazione della società
Malgrado i problemi connessi all'urbanizzazione e all'organizzazione di vita e di lavoro nella società industriale, non tutto era negativo nella situazione storico-sociale d'inizio Novecento. Le economie più avanzate si erano infatti messe in condizione di produrre beni e servizi teoricamente disponibili anche per i lavoratori; si apriva dunque un'era di più diffuso benessere, anche se la distribuzione del reddito non era equa. Un ulteriore fattore positivo era la diffusione dell'istruzione, resa obbligatoria, a livello di scuola elementare, da quasi tutti i governi europei.
Inoltre, con l'importanza sempre crescente dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, in tutti i paesi europei si ebbe un ampliamento del diritto di voto, che portò in alcune situazioni al suffragio universale maschile: la massa acquistava così un nuovo ruolo anche sulla scena politica.
In questo quadro, ebbe effetti decisivi sulla vita della società la Prima guerra mondiale. Il conflitto costituì infatti un fattore di ulteriore, rapida omogeneizzazione sociale e culturale per i moltissimi soldati coinvolti nelle operazioni belliche. Milioni di individui, provenienti dai luoghi più disparati e di condizione sociale diversissima, si trovarono per la prima volta fianco a fianco, a contatto con i ritrovati più recenti di scienza e tecnica.
Intanto, nelle città in guerra, molte donne lavoratrici sperimentavano i modi della produzione industriale e i nuovi ritmi della vita in città.
Non basta: per la prima volta milioni di uomini e donne potevano percepire in concreto l'esistenza di una nazione comune. Operai e contadini del nostro paese erano divenuti effettivamente italiani sui campi di battaglia del Piave o del Tagliavento o nelle fabbriche di Milano e Brescia. Negli anni Venti era ormai avviato il processo che gli studiosi chiamano massificazione della società. La maggioranza del corpo sociale, la massa, appunto, appariva sempre più omogenea per mentalità, comportamenti, stili di vita, ben al di là delle oggettive differenze di ceto e di tradizioni.
Il fenomeno era, per il momento, agli inizi: si sarebbe poi allargato e approfondito via via, nel corso del XX secolo, raggiungendo in estensione geografica quasi ogni parte del globo e diventando sempre più invasivo per quanto riguarda la mentalità e i comportamenti sociali.
L'emancipazione femminile
Un posto nuovo, nella società di massa, spettava alle donne. Per la verità esse rimanevano ancora escluse dalla partecipazione diretta alla vita politica per mezzo del voto. Solo dopo la lunga pressione e insistenza delle suffragiste (le donne che si battevano per il diritto di voto) capeggiate da Emmeline Pankhurst (1858-1928), arrestata e processata diverse volte, le donne inglesi (quelle sposate, perlomeno, precedute solo dalle donne neozelandesi, nel 1893) ottennero il diritto di voto alle elezioni per la Camera dei Comuni del 1918.
Queste pioniere dell'emancipazione femminile venivano chiamate suffragette, un termine ironico usato per dileggio dagli uomini, che trovavano strano, se non addirittura contro natura, il desiderio delle donne di avere voce in politica. Stando alla mentalità tradizionale, infatti, la donna doveva occuparsi della casa e della famiglia, rimanendo nell'ombra, in silenzio.
Una condizione che pesò a lungo anche in paesi avanzati: il diritto di voto alle donne in Francia sarà sancito solo nel 1944; in Italia verrà esercitato per la prima volta nel 1946, in occasione del referendum che dovrà decidere tra monarchia e repubblica.
La parità della donna era però una questione sociale assai più ampia del solo diritto di voto: coinvolgeva il lavoro e la giusta retribuzione, l'accesso all'università, la parità con il marito nell'istituto matrimoniale ecc. Furono tutte conquiste realizzate lentamente e con difficoltà dal movimento di emancipazione femminile (cioè di liberazione della donna), nato dall'iniziativa di poche coraggiose e divenuto poi, gradualmente, un movimento di massa, in grado d'incidere sulla mentalità collettiva.
Mass media e industria culturale
Il Novecento è il secolo dei mass media (mezzi di comunicazione di massa). Se fino agli inizi dell'Ottocento il protagonista della divulgazione di idee e cultura era stato il libro, cui nel XIX secolo si era affiancato il giornale, con il Novecento inizia la formidabile diffusione di sempre nuovi mass media, che non si è ancora arrestata: fumetti, riviste periodiche, cinema, programmi radiofonici e televisivi, dischi. Tutte forme comunicative di utilizzo molto più facile e diffuso.
La cultura di massa aveva fatto la sua prima comparsa a metà Ottocento, in particolare in Francia e in Inghilterra, come testimonia la fortuna del romanzo d'appendice o feuilleton, pubblicato a puntate nell'appendice dei quotidiani più diffusi (il primo celebre romanzo d'appendice fu, nel 1842, I misteri di Parigi di Eugene Sue). Nel Novecento però il fenomeno di generalizza, agevolato dall'istruzione diffusa e dalla crescente disponibilità di tempo libero. Nasce così una vera industria culturale (l'espressione verrà coniata dai filosofi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nel loro saggio Dialettica dell'Illuminismo, del 1942): un'industria che produce cultura in serie e su vasta scala, trattando quindi il sapere come una merce tra le altre, che si può comprare e vendere ed è soggetta alle leggi del mercato.
Il risultato è una netta divaricazione:
- da una parte restano gli autori della letteratura alta: essi scrivono opere d'arte, altamente curate e formalizzate, nelle quali esprimono se stessi e la loro personale visione del mondo; spesso le compongono nell'arco di molto tempo (non hanno bisogno di vendere per vivere) e per un pubblico selezionato, che si pone in sintonia con la loro sensibilità;
- dall'altra parte vi sono gli autori della letteratura di massa (o letteratura popolare, o letteratura di consumo), che producono invece con rapidità opere spesso di mediocre qualità o scarso impegno artistico e di largo consumo.
Nei romanzi popolari ciò che prevale sono trame avvincenti, il rispetto delle regole dei generi, l'osservanza delle attese del pubblico, l'uso di personaggi standard. Ciò che conta è intrattenere e divertire il pubblico. Si perdono in tal modo la profondità di visione, la cura formale, la sottigliezza psicologica, la ricchezza delle descrizioni, lo sguardo critico sulla realtà, cioè tutti gli elementi tipici della letteratura alta.
Alla fine, gli autori dell'industria culturale divengono dei semplici ingranaggi nel circuito della produzione e del consumo. Quanto agli autori della letteratura alta, essi avvertono di non poter competere con i meccanismi commerciali dell'industria culturale: tendono perciò a ritirarsi in una solitaria contemplazione, specializzando il loro linguaggio e restringendo il loro potenziale pubblico.
Le critiche alla cultura di massa
A ogni modo l'idea che la cultura potesse anche essere una merce, anziché un bene spirituale o un messaggio di verità, com'era stata sempre intesa, produsse all'inizio del Novecento un vero shock, che suscitò molte inquietudini e dubbi: domande su cosa siano realmente il sapere, a poesia, la funzione stessa degli scrittori. Molti intellettuali, legati alle forme tradizionali dello scrivere e del pensare, criticarono duramente la cultura di massa, definendola la morte della cultura e della civiltà: dal loro punto di vista, le collane commerciali (romanzi rosa, romanzi gialli ecc.), il cinema di divertimento, le riviste popolari, la pubblicità e altri fenomeni di questo tipo, non sono altro che forme in cui rivive l'antico motto panem et circenses (pane e giochi), ovvero le distribuzioni gratuite di cibo e i giochi del circo offerti dagli imperatori alle folle per ingraziarsele politicamente.
E' tuttavia sbagliato condannare in modo acritico o troppo generico. Fra i tanti prodotti pensati per la massa, alcuni si rivelano (magari a distanza di tempo) validi: oggi i critici, per esempio, hanno rivalutato i romanzi di Alexandre Dumas (1802-70) o di Jules Verne (1828-1905), scritti a metà/fine Ottocento per soddisfare la crescente richiesta di lettura e divertimento da parte del nuovo pubblico dei quotidiani da un penny. E poi l'educazione dei gusti culturali è un processo lungo e graduale:
le cose non andavano affatto meglio nei tempi in cui il 90% delle persone veniva escluso, di fatto, dalla lettura e dalla cultura.
Lo sviluppo dei Mass Media.
Il Novecento è stato il secolo delle masse. Gli studiosi descrivono la società contemporanea con numerose espressioni (cultura di massa, comunicazione di massa, società di massa) in cui ricorre questo termine, massa, derivato da una parola del greco antico, che indicava la pasta per fare il pane. Dunque nel concetto di massa vi è un'idea di elasticità, di facile adattabilità a forme diverse, ma anche di informe. La massa è un insieme di individui sprovvisto di particolari requisiti, a differenza delle élite, gruppi ristretti che invece possiedono precisi privilegi politici, economici, sociali.
Numerosi intellettuali si confrontano nei primi decenni del Novecento sul valore e sui rischi connessi al concetto di massa, specie se tradotto nell'ambito sociale e politico. Al di là delle diverse interpretazioni, resta indubitabile che l'età contemporanea è segnata dall'emersione delle masse come nuove protagoniste della storia.
Nascita delle Società di massa
Per fare massa occorre, ovviamente, un'alta concentrazione di individui in spazi ristretti: migliaia di contadini dispersi in piccole unità agricole sul territorio non formano una massa; ma migliaia di operai concentrati nelle città industriali sì. Perché nascesse dunque la massa era prima necessario che si allargasse a macchia d'olio il processo di urbanizzazione, come risultato dell'espansione della grande industria.
Nel 1810 solo 12 europei su 100 vivevano in città; un secolo dopo erano 41 su 100. Nel 1850 le città europee con oltre 100 mila abitanti erano solo 42; sessant'anni dopo, nel 1910, il loro numero si era più che quadruplicato, passando a 183. Nel 1911 Londra contava già più di 3 milioni di abitanti; Parigi quasi due milioni. Ma le grandi metropoli industriali, affollate di manodopera a basso costo, che dall'agricoltura si travasava nelle fabbriche, si allargavano in modo caotico, con evidenti squilibri: il tessuto urbano si degradava, masse di lavoratori si addensavano nei quartieri dormitorio privi di strutture sociali e ricettacolo di malattie, aggressività, violenza.
Il primo effetto di questo sradicamento collettivo dalle campagne era un violento disorientamento culturale: spogliati della loro identità e immersi nel nuovo ambiente urbano, gli abitanti delle città soffrivano una triste condizione di solitudine, di anonimato. A peggiorarla era il lavoro ripetitivo e alienante in fabbrica, dove ormai dominavano le macchine: la prima catena di montaggio fu inaugurata da Henry Ford nel 1913. Poco dopo divenne celebre fantapolitico R.U.R. (1920), che narrava di un mondo dominato da uomini artificiali.
Parere personali di personaggi illustri
Il concetto filosofico di alienazione (dal latino alius, altro), elaborato nell'Ottocento ma assai più diffuso nel Novecento, esprime chiaramente questa nuova condizione: un alienarsi inteso come divenire altro, passare ad altro nel senso più ampio.
Il primo filosofo a parlare di alienazione in senso negativo fu Ludwig Feuebach (1804-72): egli definisce in questi termini l'effetto negativo della religione, in cui l'uomo separa da sé (aliena) i propri valori essenziali e li trasferisce alla divinità.
In seguito Karl Marx (1818-83) definì alienata la condizione degli operai nell'economia capitalistica: la loro attività lavorativa consiste solo nell'esecuzione di compiti manuali e ripetitivi, mentre il frutto del loro lavoro arricchisce soltanto l'imprenditore. Più in generale, secondo Marx, nella società borghese e capitalistica tutti gli uomini si rapportavano agli altri solo come produttori e possessori di merci: valgono cioè non per quello che sono, ma in base al valore di scambio che li caratterizza.
Perdono così le loro caratteristiche specificamente umane.
Più avanti il filosofo marxista Gyorgy Lukacs (in Storia e coscienza di classe, 1923) affiancò al concetto di alienazione il termine reificazione (dal latino res, cosa), per indicare una condizione, quella della società capitalistica, in cui tutto diviene cosa, anche la coscienza delle persone, e in cui ciò che conta è solo produrre, vendere, consumare.
La massificazione della società
Malgrado i problemi connessi all'urbanizzazione e all'organizzazione di vita e di lavoro nella società industriale, non tutto era negativo nella situazione storico-sociale d'inizio Novecento. Le economie più avanzate si erano infatti messe in condizione di produrre beni e servizi teoricamente disponibili anche per i lavoratori; si apriva dunque un'era di più diffuso benessere, anche se la distribuzione del reddito non era equa. Un ulteriore fattore positivo era la diffusione dell'istruzione, resa obbligatoria, a livello di scuola elementare, da quasi tutti i governi europei.
Inoltre, con l'importanza sempre crescente dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, in tutti i paesi europei si ebbe un ampliamento del diritto di voto, che portò in alcune situazioni al suffragio universale maschile: la massa acquistava così un nuovo ruolo anche sulla scena politica.
In questo quadro, ebbe effetti decisivi sulla vita della società la Prima guerra mondiale. Il conflitto costituì infatti un fattore di ulteriore, rapida omogeneizzazione sociale e culturale per i moltissimi soldati coinvolti nelle operazioni belliche. Milioni di individui, provenienti dai luoghi più disparati e di condizione sociale diversissima, si trovarono per la prima volta fianco a fianco, a contatto con i ritrovati più recenti di scienza e tecnica.
Intanto, nelle città in guerra, molte donne lavoratrici sperimentavano i modi della produzione industriale e i nuovi ritmi della vita in città.
Non basta: per la prima volta milioni di uomini e donne potevano percepire in concreto l'esistenza di una nazione comune. Operai e contadini del nostro paese erano divenuti effettivamente italiani sui campi di battaglia del Piave o del Tagliavento o nelle fabbriche di Milano e Brescia. Negli anni Venti era ormai avviato il processo che gli studiosi chiamano massificazione della società. La maggioranza del corpo sociale, la massa, appunto, appariva sempre più omogenea per mentalità, comportamenti, stili di vita, ben al di là delle oggettive differenze di ceto e di tradizioni.
Il fenomeno era, per il momento, agli inizi: si sarebbe poi allargato e approfondito via via, nel corso del XX secolo, raggiungendo in estensione geografica quasi ogni parte del globo e diventando sempre più invasivo per quanto riguarda la mentalità e i comportamenti sociali.
L'emancipazione femminile
Un posto nuovo, nella società di massa, spettava alle donne. Per la verità esse rimanevano ancora escluse dalla partecipazione diretta alla vita politica per mezzo del voto. Solo dopo la lunga pressione e insistenza delle suffragiste (le donne che si battevano per il diritto di voto) capeggiate da Emmeline Pankhurst (1858-1928), arrestata e processata diverse volte, le donne inglesi (quelle sposate, perlomeno, precedute solo dalle donne neozelandesi, nel 1893) ottennero il diritto di voto alle elezioni per la Camera dei Comuni del 1918.
Queste pioniere dell'emancipazione femminile venivano chiamate suffragette, un termine ironico usato per dileggio dagli uomini, che trovavano strano, se non addirittura contro natura, il desiderio delle donne di avere voce in politica. Stando alla mentalità tradizionale, infatti, la donna doveva occuparsi della casa e della famiglia, rimanendo nell'ombra, in silenzio.
Una condizione che pesò a lungo anche in paesi avanzati: il diritto di voto alle donne in Francia sarà sancito solo nel 1944; in Italia verrà esercitato per la prima volta nel 1946, in occasione del referendum che dovrà decidere tra monarchia e repubblica.
La parità della donna era però una questione sociale assai più ampia del solo diritto di voto: coinvolgeva il lavoro e la giusta retribuzione, l'accesso all'università, la parità con il marito nell'istituto matrimoniale ecc. Furono tutte conquiste realizzate lentamente e con difficoltà dal movimento di emancipazione femminile (cioè di liberazione della donna), nato dall'iniziativa di poche coraggiose e divenuto poi, gradualmente, un movimento di massa, in grado d'incidere sulla mentalità collettiva.
Mass media e industria culturale
Il Novecento è il secolo dei mass media (mezzi di comunicazione di massa). Se fino agli inizi dell'Ottocento il protagonista della divulgazione di idee e cultura era stato il libro, cui nel XIX secolo si era affiancato il giornale, con il Novecento inizia la formidabile diffusione di sempre nuovi mass media, che non si è ancora arrestata: fumetti, riviste periodiche, cinema, programmi radiofonici e televisivi, dischi. Tutte forme comunicative di utilizzo molto più facile e diffuso.
La cultura di massa aveva fatto la sua prima comparsa a metà Ottocento, in particolare in Francia e in Inghilterra, come testimonia la fortuna del romanzo d'appendice o feuilleton, pubblicato a puntate nell'appendice dei quotidiani più diffusi (il primo celebre romanzo d'appendice fu, nel 1842, I misteri di Parigi di Eugene Sue). Nel Novecento però il fenomeno di generalizza, agevolato dall'istruzione diffusa e dalla crescente disponibilità di tempo libero. Nasce così una vera industria culturale (l'espressione verrà coniata dai filosofi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nel loro saggio Dialettica dell'Illuminismo, del 1942): un'industria che produce cultura in serie e su vasta scala, trattando quindi il sapere come una merce tra le altre, che si può comprare e vendere ed è soggetta alle leggi del mercato.
Il risultato è una netta divaricazione:
- da una parte restano gli autori della letteratura alta: essi scrivono opere d'arte, altamente curate e formalizzate, nelle quali esprimono se stessi e la loro personale visione del mondo; spesso le compongono nell'arco di molto tempo (non hanno bisogno di vendere per vivere) e per un pubblico selezionato, che si pone in sintonia con la loro sensibilità;
- dall'altra parte vi sono gli autori della letteratura di massa (o letteratura popolare, o letteratura di consumo), che producono invece con rapidità opere spesso di mediocre qualità o scarso impegno artistico e di largo consumo.
Nei romanzi popolari ciò che prevale sono trame avvincenti, il rispetto delle regole dei generi, l'osservanza delle attese del pubblico, l'uso di personaggi standard. Ciò che conta è intrattenere e divertire il pubblico. Si perdono in tal modo la profondità di visione, la cura formale, la sottigliezza psicologica, la ricchezza delle descrizioni, lo sguardo critico sulla realtà, cioè tutti gli elementi tipici della letteratura alta.
Alla fine, gli autori dell'industria culturale divengono dei semplici ingranaggi nel circuito della produzione e del consumo. Quanto agli autori della letteratura alta, essi avvertono di non poter competere con i meccanismi commerciali dell'industria culturale: tendono perciò a ritirarsi in una solitaria contemplazione, specializzando il loro linguaggio e restringendo il loro potenziale pubblico.
Le critiche alla cultura di massa
A ogni modo l'idea che la cultura potesse anche essere una merce, anziché un bene spirituale o un messaggio di verità, com'era stata sempre intesa, produsse all'inizio del Novecento un vero shock, che suscitò molte inquietudini e dubbi: domande su cosa siano realmente il sapere, a poesia, la funzione stessa degli scrittori. Molti intellettuali, legati alle forme tradizionali dello scrivere e del pensare, criticarono duramente la cultura di massa, definendola la morte della cultura e della civiltà: dal loro punto di vista, le collane commerciali (romanzi rosa, romanzi gialli ecc.), il cinema di divertimento, le riviste popolari, la pubblicità e altri fenomeni di questo tipo, non sono altro che forme in cui rivive l'antico motto panem et circenses (pane e giochi), ovvero le distribuzioni gratuite di cibo e i giochi del circo offerti dagli imperatori alle folle per ingraziarsele politicamente.
E' tuttavia sbagliato condannare in modo acritico o troppo generico. Fra i tanti prodotti pensati per la massa, alcuni si rivelano (magari a distanza di tempo) validi: oggi i critici, per esempio, hanno rivalutato i romanzi di Alexandre Dumas (1802-70) o di Jules Verne (1828-1905), scritti a metà/fine Ottocento per soddisfare la crescente richiesta di lettura e divertimento da parte del nuovo pubblico dei quotidiani da un penny. E poi l'educazione dei gusti culturali è un processo lungo e graduale:
le cose non andavano affatto meglio nei tempi in cui il 90% delle persone veniva escluso, di fatto, dalla lettura e dalla cultura.
Lo sviluppo dei Mass Media.
- 1837: nasce la fotografia: il pittore francese Louis-Jacques Daguerre fissa in modo permanente le immagini su carta, utilizzando una camera oscura.
- 1838: Samuel Morse installa il primo telegrafo elettrico.
- 1865: prima rotativa dello statunitense Richard Hoe.
- 1871: l'italiano Antonio Meucci brevetta negli Stati Uniti il primo ricevitore acustico, prototipo del telefono.
- 1877: lo statunitense Thomas Alva Edison inaugura il fonografo, mezzo per l'incisione meccanica del suono.
- 1882-85: nasce il primo procedimento per la stampa di fotografie.
- 1888: il tedesco Emil Berliner inventa il grammofono e il disco fonografico.
- 1895: prime proiezioni cinematografiche a Parigi dei fratelli Lumiere.
- 1901: Guglielmo Marconi compie la prima trasmissione radiotelegrafica transatlantica in segnali Morse, sfruttando le onde elettromagnetiche.
- 1920-28: nascono (in Usa, Francia, Italia e Inghilterra) i primi enti pubblici e privati per la trasmissione di programmi radiofonici.
- 1926: primi esperimenti televisivi presso la BBC inglese.
- 1926-27: nasce il cinema sonoro.
- 1936: prima programmazione televisiva regolare in Inghilterra.
- 1941-51: viene realizzata in Francia la prima fotocopiatrice, che rivoluzionerà le tecniche di stampa.
- 1948: la compagnia statunitense Columbia mette in commercio i primi dischi a 33 giri.
- 1953: prime trasmissioni televisive in eurovisione; s'inaugura il grande schermo cinematografico (cinemascope).
- 1954: la Rai inizia le trasmissioni televisive in Italia; negli Usa nasce la prima radio a transistor.
- 1956: la società Ampex (Usa) brevetta il video registratore.
- 1958: escono i primi dischi stereofonici ad alta fedeltà (Hi-fi).
- 1962: i satelliti artificiali consentono la diffusione mondiale delle trasmissioni.
- 1965: negli Usa s'inaugura la TV a colori.
- 1970: si diffondono le prime musicassette, che rivoluzionano il mercato discografico.
- 1979: prime realizzazioni dei CD (compact disc).
- 1990: definizione ufficiale (basata sul protocollo TCP/IP) di internet, rete telematica mondiale.
- 1996: in Giappone viene prodotto il primo DVD (digital video disc), supporto per la registrazione di informazioni digitali con metodi ottici.
- 1998: in Gran Bretagna hanno inizio le trasmissioni TV sul digitale terrestre.
- 2002: si diffonde la tecnologia Mp3, un sistema di compressione audio in grado di riprodurre musica ad alta fedeltà su supporti elettronici personali di piccole dimensioni.
- 2012: la Tv in Italia visibile solo con il digitale terrestre.