Situazione generale
Negli anni Trenta l’espansione imperiale diviene uno dei temi favoriti del governo fascista di Mussolini, il quale aspira a fondare un impero sullo stile di quello romano.
Fra i possedimenti coloniali dell’Italia vi è anche la Libia, annessa nel 1911-1912 in seguito alla guerra con l’impero ottomano intrapresa dal governo Giolitti.
L’Abissinia o Etiopia, un Paese ricco di risorse naturali, è l’unico Stato, insieme alla Liberia, ancora indipendente in Africa. Una sua eventuale invasione non avrebbe dovuto provocare, in teoria, nessun intervento internazionale. Invece la condanna della Società delle Nazioni comporta l’uscita dell’Italia da questa istituzione e il suo avvicinamento alla Germania di Hitler.
La vicinanza dell’Etiopia agli altri possedimenti italiani, l’Eritrea e la Somalia italiana avrebbe determinato la creazione di un’importante zona d’influenza italiana
Le leggi fascistissime
Nell'arco dei pochi anni successivi alla marcia fascista su roma, Mussolini procedette metodicamente alla costruzione di uno Stato totalitario, fondato cioè su una dittatura personale e su un partito unico, che intendeva regolamentare tutte le attività dei cittadini.
L'opera di consolidamento del regime ebbe inizio con la promulgazione delle leggi fascistissime, ispirate dal giurista Alfredo Rocco (1925-1926). Attraverso queste leggi venne definitivamente soppressa la libertà di parola e di associazione, mentre la stampa si trovò rigidamente sottoposta al controllo della polizia. A tale scopo furono ampliati i poteri dei prefetti, che potevano a loro discrezione sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche. Fu stabilito inoltre l'allontanamento del servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà al regime e fu istituito il confino come sanzione principale nei confronti dei soggetti apertamente ostili al regime. Mussolini intervenne anche in materia costituzionale trasformando il capo del governo in Segretario di Stato, nominato e revocato dal re e responsabile del proprio indirizzo di governo solo di fronte al re e non più di fronte al Parlamento. Tale legge mirava chiaramente ad abolire la distinzione dei poteri, caposaldo della democrazia liberale, assegnando l'esercizio del potere legislativo all'esecutivo. Venne inoltre modificato l'ordinamento municipale attraverso l'eliminazione del consiglio comunale e del sindaco (entrambi elettivi), a cui subentrò il podestà (di nomina governativa), che esercitava le funzioni sia del sindaco, sia della giunta, sia del consiglio comunale. Il 25 novembre 1926 fu emanato infine il provvedimento per la difesa dello Stato le cui sentenze erano immediatamente esecutive e inappellabili. Fu così che in soli ventiquattro mesi, dal 3 gennaio 1925 alla fine del 1926, il fascismo si trasformò in un vero e proprio regime aprendo una nuova pagina nella storia istituzionale italiana.
La nuova riforma elettorale
La tappa successiva di tale processo fu la nuova riforma elettorale varata nel 1928: in base a essa l'elettore era chiamato ad approvare o respingere, per la Camera dei deputati (il Senato era sempre di nomina regia), una lista unica nazionale di candidati scelti dal Gran consiglio del fascismo. Nel 1928, fra l'altro, il Gran consiglio era diventato un organo costituzionale, arrogandosi il diritto sia di nominare il capo del governo, sia addirittura di giudicare sulla successione al trono.
Il plebiscito del 1929 e lo svuotamento dei poteri del parlamento
Nel 1929 quindi, in seguito a tale riforma, al posto di regolari elezioni politiche si svolse una consultazione plebiscitaria: i cittadini, infatti, dovevano limitarsi a votare con un si o con un no l'unica lista compilata dal governo, sapendo che il loro voto non era più né segreto, né libero in quanto la scheda del si era facilmente riconoscibile dall'esterno perché tricolore, mentre quella del no era bianca e chi la votava diventava oggetto di violenze. Ciò spiega i risultati usciti dalle elezioni del 24 marzo 1929, nel corso delle quali la lista unica ottenne 8.506.576 voti favorevoli, mentre solo 136.198 furono i contrari. La Camera uscita da queste elezioni vide profondamente snaturato il proprio ruolo, che non fu più quello di votare le leggi in una libera e autonoma dialettica parlamentare, bensì solo quello di collaboratore con il governo: il Parlamento perdeva inoltre la sua essenziale funzione rappresentativa, essendo i nuovi eletti espressione del partito unico al potere, non del popolo. Nel 1938 la Camera dei deputati fu addirittura soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. E' evidente che da un organo di tal genere c'era da attendersi soltanto una liturgia del consenso. Mussolini, del resto, si preoccupò di chiamare e far parte del governo e dell'apparato direttivo della burocrazia statale e dell'esercito soltanto elementi di provata fede politica, anche se incompetenti.
Dissensi ed epurazioni all'interno del Partito Fascista
La realizzazione della dittatura passava non solo attraverso l'esautorazione e lo smantellamento del sistema parlamentare liberale, ma anche attraverso una politica repressiva del dissenso che poteva provenire dall'interno stesso del movimento fascista, dove esisteva una notevole varietà di posizioni, spesso contrastanti: vi era infatti una corrente più conservatrice, secondo la quale il fascismo si era completamente realizzato; una rivoluzionaria moderata, che chiedeva una politica più aperta alle esigenze della società; una rivoluzionaria intransigente, che esigeva una fascistizzazione più radicale della politica e della società. Mussolini sostanzialmente non appartenne a nessuna delle tre correnti: egli era troppo preoccupato di conservare il potere per aderire alle richieste dei moderati, ma era avverso soprattutto agli intransigenti, fonte di continui problemi per l'ordine pubblico. egli procedette così in poco tempo a un'epurazione del partito: in tale quadro si colloca il suo tentativo di estromettere peraltro senza successo l'ex segretario generale Roberto Farinacci (1892-1945), uomo duro del fascismo.
Propaganda e culto della personalità
Per accrescere il consenso e consolidare ulteriormente il regime, Mussolini fece ampio ricorso a una martellante propaganda, attuata dalla stampa, dal cinema, dalla radio, dalle organizzazioni di partito: tale azione di manipolazione e indottrinamento del popolo italiano era finalizzata a distruggere ogni ricordo delle libertà civili nelle generazioni più anziane e a sopprimere la coscienza critica in quelle più giovani, così da ottenere un'obbedienza cieca, assoluta, totalizzante al nuovo regime, continuamente esaltato in tutti i suoi aspetti. Mussolini si preoccupò particolarmente di alimentare il culto della propria immagine: per questo iniziò a farsi chiamare duce, ovvero condottiero, un termine che voleva sottolineare il suo ruolo di guida, di capo assoluto per la nazione, e contemporaneamente costituiva un richiamo al mondo della Roma antica, considerato dall'ideologia fascista il periodo di massima espressione della grandezza italiana, Sulle facciate degli edifici pubblici e delle abitazioni private comparvero ben presto gigantesche iscrizioni inneggianti al duce, indicato come il salvatore della patria, il restauratore dell'ordine, l'uomo della provvidenza (Duce tu sei la luce).
Il controllo totale della società
La propaganda del regime si rivolgeva in particolare alle giovani generazioni e il fascismo individuò proprio nella scuola uno dei terreni più importanti in cui imporre la propria ideologia. In questa direzione era stata attuata già nel 1923 una riforma della scuola, a firma del filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), che prevedeva una struttura centralizzata e gerarchica ispirata all'ideologia fascista e dava all'organizzazione scolastica un'impronta fortemente militarista. La riforma fu completata nel 1926 con la creazione dell'Opera nazionale Balilla (Onb), un'istituzione parascolastica dedita all'istruzione ginnico-sportiva e pre-militare dei ragazzi dai 6 ai 18 anni. L'Opera Dieci anni più tardi (1937), un organo appositamente costituito, il Ministero della cultura popolare (Minculpop) perfezionò e completò tale opera di fascistizzazione soprattutto attraverso l'introduzione della censura e un rigido controllo della stampa.
Gli strumenti della repressione
L'Italia sembrò diventare così un'imminente caserma, in un'atmosfera di passiva esaltazione degli atti e delle parole del duce. Chiunque infatti avesse espresso un parere contrario a qualche gerarca o avesse osato rifiutare il saluto fascista (il braccio destro teso in alto), o salutare con una stretta di mano oppure usando il lei invece del voi (reso obbligatorio da Mussolini) poteva essere emarginato e privato di casa e lavoro o addirittura condannato a violenze fisiche e psicologiche. Fra l'altro non era più possibile aver alcun impiego pubblico, senza una regolare iscrizione al partito. Tra il 1927 e il 1930 fu creata una polizia segreta, l'Ovra (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell'Antifascismo), che si dimostrò uno dei più efficaci strumenti per la ricerca e la repressione degli antifascisti, facilitando il lavoro del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Tuttavia, nonostante il clima di intimidazione instaurato, l'opposizione al fascismo continuava a farsi sentire per mezzo di opere scritte e diffuse clandestinamente o attraverso iniziative e movimenti perseguitati con durezza.
Gli oppositori al fascismo
Fra i capi e gli esponenti dei partiti antifascisti che vennero messi a tacere ricordiamo Antonio Gramsci, fondatore nel 1921 e segretario dal 1924 del Partito comunista italiano, che morì nel 1937 dopo undici anni di carcere; Alcide De Gasperi, del Partito popolare, arrestato mentre tentava di espatriare e rinchiuso per un certo tempo in prigione; Giovanni Amendola e Pietro Gobetti, che perirono in seguito alle percosse subite dagli squadristi. Altri oppositori, come i socialisti Filippo Turati o il fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo, furono costretti a vivere in esilio all'estero, soprattutto in Francia. Tuttavia neppure l'esilio bastava a garantire la vita: significativo a tal riguardo il caso dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati nel 1937 da sicari francesi al soldo del governo italiano. Contro la dittatura si era espressa anche una resistenza in campo intellettuale, legata soprattutto alla figure del filosofo liberale Benedetto Croce, al quale si deve la stesura del Manifesto degli Intellettuali antifascisti, pubblicato il 1° maggio 1925 in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile e apparso il 21 aprile.
Il deciso atteggiamento di opposizione assunto da Croce trovò ampio riflesso nelle sue opere, improntate a un'aperta difesa degli ideali di giustizia e di libertà. Su questa posizione si schierarono alcuni insigni docenti universitari, come gli storici Gaetano Salvemini e Gaetano De Sanctis, che rinunciarono alla cattedra pur di non giurare fedeltà al regime.
L'attentato a Mussolini e l'incursione di Bassanesi
In tale cima repressivo suscitarono grande clamore nel Paese alcune azioni antifasciste particolarmente audaci, come l'attentato a Mussolini compiuto il 31 ottobre 1926 a Bologna e attribuito al quindicenne Anteo Zamboni, immediatamente ucciso dai fascisti. L'avvenimento offrì al governo l'occasione di emettere una lunga serie di severi provvedimenti, quali l'annullamento dei passaporti, la soppressione di tutte le associazioni e pubblicazioni contrarie al regime, il confino di polizia per gli oppositori. Atto di grande risonanza fu anche quello compiuto dal maestro Giovanni Bassanesi, convinto seguace del movimento Giustizia e Libertà, il quale, provenendo dalla Svizzera, l'11 luglio 1930 riuscì con un piccolo aereo a lanciare 100.000 manifestini antifascisti su Milano.
La soppressione dei diritti sindacali e il Codice di rocco (1926)
Prima ancora di avere posto fine a ogni forma di libertà, da quella personale a quella sindacale, da quella culturale a quella associativa, il regime imboccò decisamente la via di un aperto appoggio all'alta finanza e alla grande borghesia capitalistica, industriale e agraria, evitando di colpirne gli esponenti con forti tasse, ma soprattutto soffocando le rivendicazioni di operaie attraverso l'abolizione delle commissioni interne delle fabbriche, del diritto di sciopero e dei liberi sindacati, stabilita con il patto di Palazzo Vidoni (1925) e divenuta legge con l'entrata in vigore del codice Rocco, redatto dal maggio teorico della dottrina nazionalista dello Stato, Alfredo Rocco.
Le corporazioni
I liberi sindacati vennero sostituiti nel febbraio 1934 da sindacati fascisti, inquadrati nelle corporazioni, organizzazioni che riunivano i datori di lavoro e i lavoratori di tutte le categorie di produzione. Le corporazioni erano veri e propri organi di Stato fascista, preposti al controllo delle forze produttive e alla conciliazione di eventuali controversie fra capitale e lavoro. Le corporazioni si fondavano sul principio della collaborazione fra le classi sociali, in opposizione alla lotta di classe socialista: il che significava anche subordinare le spirazioni dei singoli al raggiungimento degli interessi della comunità nazionale. Tale collaborazione venne sancita ufficialmente fin dal 1927 con la pubblicazione della Carta del lavoro dello Stato fascista. Di qui l'abolizione della festa del lavoro del 1° maggio e la sostituzione con quella fascista del 21 aprile, anniversario della fondazione di Roma. Le corporazioni dunque non furono libera espressione degli associati; inoltre tutte le questioni finirono per essere decise dall'alto e per essere generalmente risolte a beneficio delle classi padronali. Ecco perché, anche se in un primo momento qualche positivo risultato fu raggiunto (ad esempio, la giornata lavorativa di otto ore per tutti), questi nuovi organismi costituirono ben presto una soffocante macchina burocratica, che contribuì a bloccare ogni rivendicazione dei lavoratori.
Dal liberismo al protezionismo
Anche la politica economica conobbe un radicale mutamento, seguendo il modello basato sull'intervento diretto dello Stato. Fin dal 1925, infatti, il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi abbandonò il liberismo economico messo in atto dal predecessore De Stefani e imboccò la via del protezionismo, mediante un consistente inasprimento dei dazi sui cereali, la creazione di ostacoli di ogni genere all'investimento dei capitali esteri in Italia e un pesante aumento delle tariffe doganali. Veniva inoltre riconosciuta al ministro delle Finanze la facoltà di fissare divieti d'importazione ritenuti di volta in volta opportuni o indispensabili. Questa strategia rispondeva alla precisa necessità di limitare la dipendenza dall'estero, ma anche a un'esigenza di prestigio nazionale oltre che di ordine interno, visto che il risanamento avrebbe contribuito alla definitiva stabilizzazione del regime.
La rivalutazione della lira
Il governo fascista aveva preso l'impegno di rivalutare la lire, una simile rivalutazione risultò però non corrispondente alla reale capacità produttiva dell'Italia, generando così gravi scompensi. Una moneta sopravvalutata provoca, infatti, una scarsità di moneta circolante e di conseguenza limita la richiesta di merci. Di qui il rallentamento della produzione, un consistente aumento dei costi, un pesante calo delle esportazioni, nonché minori guadagni e nuovi freni per lo sviluppo delle imprese industriali e per l'ammodernamento del settore agricolo. Si determinò così un improvviso ristagno, caratterizzato da una brusca riduzione delle importazioni e delle esportazioni. I prezzi a loro volta aumentarono e la disoccupazione finì per triplicarsi, mentre le difficoltà aziendali costringevano gli industriali a operare tagli ai salari nell'ordine del 10-20% del loro valore reale. Anche se la crisi fu causa di nuovi conflitti con il proletariato industriale, la piccola borghesia trasse dei benefici dalla rivalutazione della lira, in quanto garantì la stabilità dei loro risparmi. La situazione di ristagno poté inoltre considerarsi parzialmente risolta all'inizio del 1929, proprio mentre si annunciava la crisi di portata mondiale legata alle vicende economiche degli Stati Uniti.
L'economia autarchica
Il principio del dirigismo statale venne applicato in campo economico soprattutto con l'imposizione dell'autarchia. Tale politica si proponeva di mettere l'Italia in condizione di produrre da sola tutto ciò che le occorreva, indipendentemente dall'alto prezzo e dalla scadente qualità dei prodotti nazionali: e cioè di soddisfare in modo autonomo le esigenze della popolazione, senza dipendere dalle importazioni di materie prime e di manufatti dall'estero. Ora, anche se le prime manifestazioni di una politica autarchica si erano avute sin dal 1925, fu soprattutto dopo il 1937 che si cercò di realizzarla concretamente. Una simile economia d'isolamento ebbe effetti negativi sul livello della vita dei cittadini, anche se contribuì in parte a potenziare l'apparato industriale. Vi sono state le battaglie del fascismo, la più famosa la battaglia del grano a proposito della campagna per lo sviluppo della produzione cerealicola, condotta per ridurre il disavanzo commerciale della bilancia dei pagamenti con l'estro; di battaglia della palude nei riguardi dell'opera di risanamento delle zone incolte e malsane; di battaglia demografica in riferimento ai provvedimenti (come, per esempio, la tassa sul celibato) che volevano favorire l'aumento della popolazione, nella convinzione che la potenza militare di una nazione dipendesse soprattutto dal numeri dei cittadini idonei alle armi.
I Patti lateranensi
Si giunse così, dopo lunghe trattative, ai Patti lateranensi sottoscritti l'11 febbraio 1929 da Mussolini, per lo Stato italiano, e dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato a nome di Pio XI, succeduto a Benedetto XV proprio al momento dell'avvento del fascismo al potere. Questi accordi, con i quali si poneva fine alla questione romana apertasi il 20 settembre 1870, erano formati da un trattato, da una convenzione finanziaria e da un Concordato. Con il trattato il pontefice riconosceva Roma come capitale del regno d'Italia, mentre il governo italiano ammetteva la religione cattolica quale unica religione dello Stato e concedeva al papa piena sovranità al nuovo Stato della Città del Vaticano. Si esoneravano i sacerdoti dal servizio militare, si introduceva l'insegnamento religioso nelle scuole e si riconoscevano effetti civili al matrimonio religioso.
Le leggi razziali
Il nuovo Asse Roma Berlino venne rafforzato da una serie di provvedimenti persecutori nei confronti degli Ebrei, con cui l'Italia si allineò alla politica razzista e antisemita di Hitler. Si tratta di una pagina particolarmente triste e controversa del periodo fascista, su cui il dibattito degli storici è ancora aperto. Secondo alcuni studiosi, negli anni venti per il fascismo il problema ebraico non esisteva, anzi Mussolini così si era espresso sulla questione sulla razza: Noi fascisti non intendiamo farci banditori di odi razziali. Io già dissi che non ci sono razze. Si tratta di una illusione dello spirito, un sentimento. I primi germi dell'antisemitismo cominciarono invece a manifestarsi dopo l'ascesa del nazismo in Germania, quando su diversi giornali apparvero articoli che accusavano gli ebrei di volere conquistare il potere mondiale. Da allora fu un crescendo di segnali antiebraici, che culminarono con le leggi del 1938, un insieme di decreti e di documenti in cui il fascismo abbracciava una visione razzista della questione ebraica.
LEGGI ANCHE: Riassunto del Nazismo
Negli anni Trenta l’espansione imperiale diviene uno dei temi favoriti del governo fascista di Mussolini, il quale aspira a fondare un impero sullo stile di quello romano.
Fra i possedimenti coloniali dell’Italia vi è anche la Libia, annessa nel 1911-1912 in seguito alla guerra con l’impero ottomano intrapresa dal governo Giolitti.
L’Abissinia o Etiopia, un Paese ricco di risorse naturali, è l’unico Stato, insieme alla Liberia, ancora indipendente in Africa. Una sua eventuale invasione non avrebbe dovuto provocare, in teoria, nessun intervento internazionale. Invece la condanna della Società delle Nazioni comporta l’uscita dell’Italia da questa istituzione e il suo avvicinamento alla Germania di Hitler.
La vicinanza dell’Etiopia agli altri possedimenti italiani, l’Eritrea e la Somalia italiana avrebbe determinato la creazione di un’importante zona d’influenza italiana
Le leggi fascistissime
Nell'arco dei pochi anni successivi alla marcia fascista su roma, Mussolini procedette metodicamente alla costruzione di uno Stato totalitario, fondato cioè su una dittatura personale e su un partito unico, che intendeva regolamentare tutte le attività dei cittadini.
L'opera di consolidamento del regime ebbe inizio con la promulgazione delle leggi fascistissime, ispirate dal giurista Alfredo Rocco (1925-1926). Attraverso queste leggi venne definitivamente soppressa la libertà di parola e di associazione, mentre la stampa si trovò rigidamente sottoposta al controllo della polizia. A tale scopo furono ampliati i poteri dei prefetti, che potevano a loro discrezione sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche. Fu stabilito inoltre l'allontanamento del servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà al regime e fu istituito il confino come sanzione principale nei confronti dei soggetti apertamente ostili al regime. Mussolini intervenne anche in materia costituzionale trasformando il capo del governo in Segretario di Stato, nominato e revocato dal re e responsabile del proprio indirizzo di governo solo di fronte al re e non più di fronte al Parlamento. Tale legge mirava chiaramente ad abolire la distinzione dei poteri, caposaldo della democrazia liberale, assegnando l'esercizio del potere legislativo all'esecutivo. Venne inoltre modificato l'ordinamento municipale attraverso l'eliminazione del consiglio comunale e del sindaco (entrambi elettivi), a cui subentrò il podestà (di nomina governativa), che esercitava le funzioni sia del sindaco, sia della giunta, sia del consiglio comunale. Il 25 novembre 1926 fu emanato infine il provvedimento per la difesa dello Stato le cui sentenze erano immediatamente esecutive e inappellabili. Fu così che in soli ventiquattro mesi, dal 3 gennaio 1925 alla fine del 1926, il fascismo si trasformò in un vero e proprio regime aprendo una nuova pagina nella storia istituzionale italiana.
La nuova riforma elettorale
La tappa successiva di tale processo fu la nuova riforma elettorale varata nel 1928: in base a essa l'elettore era chiamato ad approvare o respingere, per la Camera dei deputati (il Senato era sempre di nomina regia), una lista unica nazionale di candidati scelti dal Gran consiglio del fascismo. Nel 1928, fra l'altro, il Gran consiglio era diventato un organo costituzionale, arrogandosi il diritto sia di nominare il capo del governo, sia addirittura di giudicare sulla successione al trono.
Il plebiscito del 1929 e lo svuotamento dei poteri del parlamento
Nel 1929 quindi, in seguito a tale riforma, al posto di regolari elezioni politiche si svolse una consultazione plebiscitaria: i cittadini, infatti, dovevano limitarsi a votare con un si o con un no l'unica lista compilata dal governo, sapendo che il loro voto non era più né segreto, né libero in quanto la scheda del si era facilmente riconoscibile dall'esterno perché tricolore, mentre quella del no era bianca e chi la votava diventava oggetto di violenze. Ciò spiega i risultati usciti dalle elezioni del 24 marzo 1929, nel corso delle quali la lista unica ottenne 8.506.576 voti favorevoli, mentre solo 136.198 furono i contrari. La Camera uscita da queste elezioni vide profondamente snaturato il proprio ruolo, che non fu più quello di votare le leggi in una libera e autonoma dialettica parlamentare, bensì solo quello di collaboratore con il governo: il Parlamento perdeva inoltre la sua essenziale funzione rappresentativa, essendo i nuovi eletti espressione del partito unico al potere, non del popolo. Nel 1938 la Camera dei deputati fu addirittura soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. E' evidente che da un organo di tal genere c'era da attendersi soltanto una liturgia del consenso. Mussolini, del resto, si preoccupò di chiamare e far parte del governo e dell'apparato direttivo della burocrazia statale e dell'esercito soltanto elementi di provata fede politica, anche se incompetenti.
Dissensi ed epurazioni all'interno del Partito Fascista
La realizzazione della dittatura passava non solo attraverso l'esautorazione e lo smantellamento del sistema parlamentare liberale, ma anche attraverso una politica repressiva del dissenso che poteva provenire dall'interno stesso del movimento fascista, dove esisteva una notevole varietà di posizioni, spesso contrastanti: vi era infatti una corrente più conservatrice, secondo la quale il fascismo si era completamente realizzato; una rivoluzionaria moderata, che chiedeva una politica più aperta alle esigenze della società; una rivoluzionaria intransigente, che esigeva una fascistizzazione più radicale della politica e della società. Mussolini sostanzialmente non appartenne a nessuna delle tre correnti: egli era troppo preoccupato di conservare il potere per aderire alle richieste dei moderati, ma era avverso soprattutto agli intransigenti, fonte di continui problemi per l'ordine pubblico. egli procedette così in poco tempo a un'epurazione del partito: in tale quadro si colloca il suo tentativo di estromettere peraltro senza successo l'ex segretario generale Roberto Farinacci (1892-1945), uomo duro del fascismo.
Propaganda e culto della personalità
Per accrescere il consenso e consolidare ulteriormente il regime, Mussolini fece ampio ricorso a una martellante propaganda, attuata dalla stampa, dal cinema, dalla radio, dalle organizzazioni di partito: tale azione di manipolazione e indottrinamento del popolo italiano era finalizzata a distruggere ogni ricordo delle libertà civili nelle generazioni più anziane e a sopprimere la coscienza critica in quelle più giovani, così da ottenere un'obbedienza cieca, assoluta, totalizzante al nuovo regime, continuamente esaltato in tutti i suoi aspetti. Mussolini si preoccupò particolarmente di alimentare il culto della propria immagine: per questo iniziò a farsi chiamare duce, ovvero condottiero, un termine che voleva sottolineare il suo ruolo di guida, di capo assoluto per la nazione, e contemporaneamente costituiva un richiamo al mondo della Roma antica, considerato dall'ideologia fascista il periodo di massima espressione della grandezza italiana, Sulle facciate degli edifici pubblici e delle abitazioni private comparvero ben presto gigantesche iscrizioni inneggianti al duce, indicato come il salvatore della patria, il restauratore dell'ordine, l'uomo della provvidenza (Duce tu sei la luce).
Il controllo totale della società
La propaganda del regime si rivolgeva in particolare alle giovani generazioni e il fascismo individuò proprio nella scuola uno dei terreni più importanti in cui imporre la propria ideologia. In questa direzione era stata attuata già nel 1923 una riforma della scuola, a firma del filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), che prevedeva una struttura centralizzata e gerarchica ispirata all'ideologia fascista e dava all'organizzazione scolastica un'impronta fortemente militarista. La riforma fu completata nel 1926 con la creazione dell'Opera nazionale Balilla (Onb), un'istituzione parascolastica dedita all'istruzione ginnico-sportiva e pre-militare dei ragazzi dai 6 ai 18 anni. L'Opera Dieci anni più tardi (1937), un organo appositamente costituito, il Ministero della cultura popolare (Minculpop) perfezionò e completò tale opera di fascistizzazione soprattutto attraverso l'introduzione della censura e un rigido controllo della stampa.
Gli strumenti della repressione
L'Italia sembrò diventare così un'imminente caserma, in un'atmosfera di passiva esaltazione degli atti e delle parole del duce. Chiunque infatti avesse espresso un parere contrario a qualche gerarca o avesse osato rifiutare il saluto fascista (il braccio destro teso in alto), o salutare con una stretta di mano oppure usando il lei invece del voi (reso obbligatorio da Mussolini) poteva essere emarginato e privato di casa e lavoro o addirittura condannato a violenze fisiche e psicologiche. Fra l'altro non era più possibile aver alcun impiego pubblico, senza una regolare iscrizione al partito. Tra il 1927 e il 1930 fu creata una polizia segreta, l'Ovra (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell'Antifascismo), che si dimostrò uno dei più efficaci strumenti per la ricerca e la repressione degli antifascisti, facilitando il lavoro del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Tuttavia, nonostante il clima di intimidazione instaurato, l'opposizione al fascismo continuava a farsi sentire per mezzo di opere scritte e diffuse clandestinamente o attraverso iniziative e movimenti perseguitati con durezza.
Gli oppositori al fascismo
Fra i capi e gli esponenti dei partiti antifascisti che vennero messi a tacere ricordiamo Antonio Gramsci, fondatore nel 1921 e segretario dal 1924 del Partito comunista italiano, che morì nel 1937 dopo undici anni di carcere; Alcide De Gasperi, del Partito popolare, arrestato mentre tentava di espatriare e rinchiuso per un certo tempo in prigione; Giovanni Amendola e Pietro Gobetti, che perirono in seguito alle percosse subite dagli squadristi. Altri oppositori, come i socialisti Filippo Turati o il fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo, furono costretti a vivere in esilio all'estero, soprattutto in Francia. Tuttavia neppure l'esilio bastava a garantire la vita: significativo a tal riguardo il caso dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati nel 1937 da sicari francesi al soldo del governo italiano. Contro la dittatura si era espressa anche una resistenza in campo intellettuale, legata soprattutto alla figure del filosofo liberale Benedetto Croce, al quale si deve la stesura del Manifesto degli Intellettuali antifascisti, pubblicato il 1° maggio 1925 in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile e apparso il 21 aprile.
Il deciso atteggiamento di opposizione assunto da Croce trovò ampio riflesso nelle sue opere, improntate a un'aperta difesa degli ideali di giustizia e di libertà. Su questa posizione si schierarono alcuni insigni docenti universitari, come gli storici Gaetano Salvemini e Gaetano De Sanctis, che rinunciarono alla cattedra pur di non giurare fedeltà al regime.
L'attentato a Mussolini e l'incursione di Bassanesi
In tale cima repressivo suscitarono grande clamore nel Paese alcune azioni antifasciste particolarmente audaci, come l'attentato a Mussolini compiuto il 31 ottobre 1926 a Bologna e attribuito al quindicenne Anteo Zamboni, immediatamente ucciso dai fascisti. L'avvenimento offrì al governo l'occasione di emettere una lunga serie di severi provvedimenti, quali l'annullamento dei passaporti, la soppressione di tutte le associazioni e pubblicazioni contrarie al regime, il confino di polizia per gli oppositori. Atto di grande risonanza fu anche quello compiuto dal maestro Giovanni Bassanesi, convinto seguace del movimento Giustizia e Libertà, il quale, provenendo dalla Svizzera, l'11 luglio 1930 riuscì con un piccolo aereo a lanciare 100.000 manifestini antifascisti su Milano.
La soppressione dei diritti sindacali e il Codice di rocco (1926)
Prima ancora di avere posto fine a ogni forma di libertà, da quella personale a quella sindacale, da quella culturale a quella associativa, il regime imboccò decisamente la via di un aperto appoggio all'alta finanza e alla grande borghesia capitalistica, industriale e agraria, evitando di colpirne gli esponenti con forti tasse, ma soprattutto soffocando le rivendicazioni di operaie attraverso l'abolizione delle commissioni interne delle fabbriche, del diritto di sciopero e dei liberi sindacati, stabilita con il patto di Palazzo Vidoni (1925) e divenuta legge con l'entrata in vigore del codice Rocco, redatto dal maggio teorico della dottrina nazionalista dello Stato, Alfredo Rocco.
Le corporazioni
I liberi sindacati vennero sostituiti nel febbraio 1934 da sindacati fascisti, inquadrati nelle corporazioni, organizzazioni che riunivano i datori di lavoro e i lavoratori di tutte le categorie di produzione. Le corporazioni erano veri e propri organi di Stato fascista, preposti al controllo delle forze produttive e alla conciliazione di eventuali controversie fra capitale e lavoro. Le corporazioni si fondavano sul principio della collaborazione fra le classi sociali, in opposizione alla lotta di classe socialista: il che significava anche subordinare le spirazioni dei singoli al raggiungimento degli interessi della comunità nazionale. Tale collaborazione venne sancita ufficialmente fin dal 1927 con la pubblicazione della Carta del lavoro dello Stato fascista. Di qui l'abolizione della festa del lavoro del 1° maggio e la sostituzione con quella fascista del 21 aprile, anniversario della fondazione di Roma. Le corporazioni dunque non furono libera espressione degli associati; inoltre tutte le questioni finirono per essere decise dall'alto e per essere generalmente risolte a beneficio delle classi padronali. Ecco perché, anche se in un primo momento qualche positivo risultato fu raggiunto (ad esempio, la giornata lavorativa di otto ore per tutti), questi nuovi organismi costituirono ben presto una soffocante macchina burocratica, che contribuì a bloccare ogni rivendicazione dei lavoratori.
Dal liberismo al protezionismo
Anche la politica economica conobbe un radicale mutamento, seguendo il modello basato sull'intervento diretto dello Stato. Fin dal 1925, infatti, il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi abbandonò il liberismo economico messo in atto dal predecessore De Stefani e imboccò la via del protezionismo, mediante un consistente inasprimento dei dazi sui cereali, la creazione di ostacoli di ogni genere all'investimento dei capitali esteri in Italia e un pesante aumento delle tariffe doganali. Veniva inoltre riconosciuta al ministro delle Finanze la facoltà di fissare divieti d'importazione ritenuti di volta in volta opportuni o indispensabili. Questa strategia rispondeva alla precisa necessità di limitare la dipendenza dall'estero, ma anche a un'esigenza di prestigio nazionale oltre che di ordine interno, visto che il risanamento avrebbe contribuito alla definitiva stabilizzazione del regime.
La rivalutazione della lira
Il governo fascista aveva preso l'impegno di rivalutare la lire, una simile rivalutazione risultò però non corrispondente alla reale capacità produttiva dell'Italia, generando così gravi scompensi. Una moneta sopravvalutata provoca, infatti, una scarsità di moneta circolante e di conseguenza limita la richiesta di merci. Di qui il rallentamento della produzione, un consistente aumento dei costi, un pesante calo delle esportazioni, nonché minori guadagni e nuovi freni per lo sviluppo delle imprese industriali e per l'ammodernamento del settore agricolo. Si determinò così un improvviso ristagno, caratterizzato da una brusca riduzione delle importazioni e delle esportazioni. I prezzi a loro volta aumentarono e la disoccupazione finì per triplicarsi, mentre le difficoltà aziendali costringevano gli industriali a operare tagli ai salari nell'ordine del 10-20% del loro valore reale. Anche se la crisi fu causa di nuovi conflitti con il proletariato industriale, la piccola borghesia trasse dei benefici dalla rivalutazione della lira, in quanto garantì la stabilità dei loro risparmi. La situazione di ristagno poté inoltre considerarsi parzialmente risolta all'inizio del 1929, proprio mentre si annunciava la crisi di portata mondiale legata alle vicende economiche degli Stati Uniti.
L'economia autarchica
Il principio del dirigismo statale venne applicato in campo economico soprattutto con l'imposizione dell'autarchia. Tale politica si proponeva di mettere l'Italia in condizione di produrre da sola tutto ciò che le occorreva, indipendentemente dall'alto prezzo e dalla scadente qualità dei prodotti nazionali: e cioè di soddisfare in modo autonomo le esigenze della popolazione, senza dipendere dalle importazioni di materie prime e di manufatti dall'estero. Ora, anche se le prime manifestazioni di una politica autarchica si erano avute sin dal 1925, fu soprattutto dopo il 1937 che si cercò di realizzarla concretamente. Una simile economia d'isolamento ebbe effetti negativi sul livello della vita dei cittadini, anche se contribuì in parte a potenziare l'apparato industriale. Vi sono state le battaglie del fascismo, la più famosa la battaglia del grano a proposito della campagna per lo sviluppo della produzione cerealicola, condotta per ridurre il disavanzo commerciale della bilancia dei pagamenti con l'estro; di battaglia della palude nei riguardi dell'opera di risanamento delle zone incolte e malsane; di battaglia demografica in riferimento ai provvedimenti (come, per esempio, la tassa sul celibato) che volevano favorire l'aumento della popolazione, nella convinzione che la potenza militare di una nazione dipendesse soprattutto dal numeri dei cittadini idonei alle armi.
I Patti lateranensi
Si giunse così, dopo lunghe trattative, ai Patti lateranensi sottoscritti l'11 febbraio 1929 da Mussolini, per lo Stato italiano, e dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato a nome di Pio XI, succeduto a Benedetto XV proprio al momento dell'avvento del fascismo al potere. Questi accordi, con i quali si poneva fine alla questione romana apertasi il 20 settembre 1870, erano formati da un trattato, da una convenzione finanziaria e da un Concordato. Con il trattato il pontefice riconosceva Roma come capitale del regno d'Italia, mentre il governo italiano ammetteva la religione cattolica quale unica religione dello Stato e concedeva al papa piena sovranità al nuovo Stato della Città del Vaticano. Si esoneravano i sacerdoti dal servizio militare, si introduceva l'insegnamento religioso nelle scuole e si riconoscevano effetti civili al matrimonio religioso.
Le leggi razziali
Il nuovo Asse Roma Berlino venne rafforzato da una serie di provvedimenti persecutori nei confronti degli Ebrei, con cui l'Italia si allineò alla politica razzista e antisemita di Hitler. Si tratta di una pagina particolarmente triste e controversa del periodo fascista, su cui il dibattito degli storici è ancora aperto. Secondo alcuni studiosi, negli anni venti per il fascismo il problema ebraico non esisteva, anzi Mussolini così si era espresso sulla questione sulla razza: Noi fascisti non intendiamo farci banditori di odi razziali. Io già dissi che non ci sono razze. Si tratta di una illusione dello spirito, un sentimento. I primi germi dell'antisemitismo cominciarono invece a manifestarsi dopo l'ascesa del nazismo in Germania, quando su diversi giornali apparvero articoli che accusavano gli ebrei di volere conquistare il potere mondiale. Da allora fu un crescendo di segnali antiebraici, che culminarono con le leggi del 1938, un insieme di decreti e di documenti in cui il fascismo abbracciava una visione razzista della questione ebraica.
LEGGI ANCHE: Riassunto del Nazismo