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Leopardi: Operette morali

di Giacomo Leopardi
Riassunto:

In seguito alla crisi del 1819. Leopardi aveva messo a punto una concezione antinomica di natura ragione e che negli anni seguenti approderà al pessimismo cosmico non in modo improvviso, ma si trovano tracce di mutazione di pensiero nello Zibaldone e in forma definitiva nelle operette morali passando da una concezione positiva ad una negativa della natura abbandonando i presupposti russoniani. La ragione che prima aveva considerato come una delle cause dell'infelicità umana ora gli appare un elemento conoscitivo capace di svelargli le contraddizioni del reale rendendolo consapevole della propria condizione. Negli anni di silenzio poetico, il Leopardi intensificò le riflessioni affidate allo Zibaldone, scrive le Operette Morali di cui la parte più consistente fu composta nel 1824, poi 1825, 1827 e 1832.
La forma prevalente è il dialogo infatti scrive 17 su 24 sotto forma di dialogo, e altre hanno forma di trattato, di narrazione storico mistica, di documento di canto mitico. La forma di dialogo gli consente di utilizzare un tono umoristico satirico che gli permette di sdrammatizzare la dolorosa realtà della vita. Il suo è un umorismo freddo. Morali perché esprimono la meditazione leopardiana sull'uomo e sul destino, e sulla situazione dolorosa dell'animo dell'uomo proteso continuamente nel sogni di una felicità impossibile e sommerso dall'angoscia del disinganno.
Nelle Operette morali specie nel 1824 (appaiono un bilancio spirituale e una constatazione lucida e angosciata dell'infelicità umana) egli abbandona la prospettiva soggettiva e autobiografica e dell'impegno e della protesta civile, ma guarda a fondo la natura per svelare la conclusione e la verità a cui è giunto, ma allo stesso tempo non vuole persuadere gli uomini o sradicare dal loro animo le illusioni, togliendo all'opera ogni dimostrazione filosofica che si trova nello Zibaldone, e attraverso l'ironia cerca un distacco dal proprio stesso dolore e dalle illusioni che avevano ispirato la sua prima stagione poetica.

Dialogo d'Ercole e di Atlante
Il dialogo appartiene a quel gruppo delle Operette Morali in cui il Leopardi descrive l’aridità della vita moderna, priva di alti ideali e di magnanime aspirazioni. Due personaggi mitologici, Ercole e Atlante, si ripresentano nella fantasia del Leopardi e diventano gli interlocutori di un dialogo divertente e piacevole nella forma, ma altrettanto profondo e severo nel contenuto. L’autore parte dal meditato proposito di deplorare l’apatia degli uomini del suo tempo: giacciono essi –secondo il suo giudizio –in uno stato di grave torpore, non hanno più energia alcuna, son come addormentati del tutto. La gravità dell’argomento affrontato non spegne lo spirito di una sottile arguzia che si manifesta con vivacità nelle parole e nei gesti dei due personaggi.
La ricchezza di riferimenti mitologici di questa Operetta ci riporta col pensiero al neoclassicismo imperante in quegli anni, ma subito ci accorgiamo che ben altro è lo spirito del poeta; egli sembra giocare divertito con i due personaggi in una sorta di favola che pure ha un suo significato serio, ma senza niente di pedante e di forzato, anzi la costruzione è disinvolta e piacevole. Ercole e Atlante, nel loro linguaggio vivace e spigliato, sembrano degli uomini comuni, anche se, visti sullo sfondo dello spazio immenso in cui li colloca il poeta, acquistano proporzioni smisurate e la loro partita a palla non ci appare un gioco da ragazzi, se consideriamo che quella palla è il mondo che si è addormentato in un sonno sterile. In questa sorta di amara constatazione si dissolve il brio iniziale della favole e subentra la pensosa malinconia leopardiana.


Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere
E’ questa una fra le più tarde Operette leopardiane, scritta nel 1832. Semplice e agile, ripropone il tema ricorrente del pensiero del poeta: la felicità non esiste né nel presente, né nel passato, ma è una vaga aspirazione per il futuro, verso l’ignota gioia del domani che non conosciamo e che ingenuamente speriamo sempre migliore dell’oggi.
Il passeggero, con la sua logica serrata e incalzante, è l’espressione di un caratteristico atteggiamento spirituale del poeta: quello della rinuncia coraggiosa ad ogni illusione che valga ad addolcire la vita. Di contro al rigore razionalistico del passeggero sta l’ottimismo fiducioso e un po’ ottuso del venditore di almanacchi; egli accoglie, senza discuterle, tutte le considerazioni del suo interlocutore, ma alla sua intima ironica domanda risponde con un impavido <<speriamo>>. Ed ecco il vero significato del breve dialogo: gli uomini hanno bisogno di illudersi e di sperare per continuare a vivere, anche coloro che, come il poeta, devono sostenere una continua lotta fra la ragione, che conosce la verità cruda della vita, e il cuore che aspetta fremente di scoprirne i lati più belli fra la disperazione per le continue delusioni e la necessità di tirare avanti comunque.


Dialogo di un folletto e di uno gnomo
Fu composto tra il 2 e il 6 marzo del 1824 è un dialogo velato d'ironia. Parlano un folletto (creatura dell'aria) e uno Gnomo (creatura spirito che vive sottoterra) in rappresentati di due specie non ancora estinte, in un mondo deserto e silenzioso, dal quale la razza umana è per sempre sparita distrutta da un processo di auto distruzione avviato dall'uomo stesso, distrutto da guerra da epidemia e svariati accidenti. Tuttavia l'universo continua impassibile il suo moto e la sua vita, anche se l'uomo con la sua prevenzione riteneva che era fatto per sé, per servire alla sua esistenza. Questo è il vero centro satirico dell'operetta, pur essendo ricca di invenzione comica, il Leopardi non ha mai un vero riso infatti ha insù un fondo di amarezza.

Dialogo della natura e di un islandese
L'importanza di questa operetta consiste nel fatto che il Leopardi risolve in modo conclusivo il problema fra l'uomo e la natura e l'infelicità umana. Precedentemente aveva cercato di conciliare l'idea di un Dio buono di una natura benigna con la scoperta dell'angoscia del vivere affermando che l'uomo era infelice per aver vissuto sereno al tempo dell'infanzia del mondo e aver tolto, con la ragione il velo alle illusioni che la natura stessa ci aveva ispirato come conforto ai mali della vita. In questo dialogo si ha infatti la sistemazione definitiva della concezione del pessimismo cosmico in cui egli concepisce la natura come una potenza cieca meccanica, fatale intesa solo al perenne ciclo di metamorfosi dell'universo incomprensibile. Essa rimane indifferente alla sorte dei figli e non vuole aiutarli a conseguire quella felicità che pure ha ispirato in loro come anelito vitale insopprimibile. Il centro del dialogo è il desolato succedersi delle domande vane dell'islandese e nelle risposte della natura, che non spiegano nulla, ma ribadiscono che agghiacciante indifferenza l'infelicità fatale dell'uomo, la sua solitudine. L'ultima domanda dell'islandese sul perché della vita e dell'universo avrà come risposta il silenzio, quindi l'uomo appare sommerso dal solido nulla.



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