Biografia:
Giacomo Leopardi è nato a Recanati nel 1798 da una famiglia di antica nobiltà ma con scarse risorse economiche, crebbe in un ambiente chiuso e retrivo di provincia, di cui sentì sempre l'oppressione (suo unico rifugio l'abbandono dell'anima ai sogni e alle speranze). Di intelligenza e sensibilità precoci, dopo una prima educazione ricevuta dal padre, conte Monaldo, e dai precettori, appena decenne si dedicò a una ricerca intensa, da autodidatta, nella ricca biblioteca paterna e consumò sette anni in uno studio matto e disperatissimo. Acquistò, così, una perfetta conoscenza del greco, del latino, dell'ebraico e delle lingue moderne. All'età di quattordici anni già componeva in versi e scriveva prose non prive di valore letterario. Intanto, mentre sempre più chiara si andava manifestando la sua spiritualità di poeta, il suo fisico era fiaccato da dolorose infermità che lo costrinsero ad allentare gli studi. Fu per lui un grande dolore che incise non poco sulla sua concezione della vita come delusione e amarezza. In questi anni si allontanò dalla fede cristiana e aderì alle teorie materialiste e meccaniciste che escludevano ogni prospettiva soprannaturale.
Insofferente dell'ambiente gretto del selvaggio borgo natio, tormentato da un profondo travaglio interiore, dopo un tentativo di fuga, nel 1822 ottenne di recarsi a Roma. Ma anche qui la vita gli apparve meschina e noiosa, perciò l'anno successivo ritornò a Recanati.
Sempre desideroso di evasione, nel 1825 si trasferì a Milano dove si guadagnò la vita presso l'editore Stella con cui aveva un contratto per sovrintendere a una edizione delle opere di Cicerone; ma le condizioni di salute non gli permisero di completare l'opera. Nella capitale lombarda restò per breve tempo; fu quindi a Bologna, a Firenze, a Pisa ove gli sembrò di avere trovato un ristoro alle sue sofferenze.
Peggiorate tuttavia le condizioni di salute, nel 1828 ritornò alla casa paterna; ma sentì presto, di nuovo, l'oppressione del chiuso ambiente della famiglia e della provincia da cui si allontanò definitivamente due anni dopo, per raggiungere Firenze, a Pisa ove gli sembrò di avere trovato un ristoro alle sue sofferenze.
Peggiorate tuttavia le condizioni di salute, nel 1828 ritornò alla casa paterna; ma sentì presto, di nuovo, l'oppressione del chiuso ambiente della famiglia e della provincia da cui si allontanò definitivamente due anni dopo, per raggiungere Firenze. Qui lo avevano richiamato alcuni amici devoti e generosi e qui conobbe Antonio Ranieri, un giovane esule politico napoletano. A Firenze il Leopardi concepì un grande amore per Fanny Targioni Tozzetti, ma l'infelice delusione che ne ebbe prostrò ulteriormente il suo animo. Nel 1833, sempre più angosciato e più ammalato, accettò l'invito del Ranieri di recarsi a Napoli dove visse, assistito fraternamente dall'amico e dalla sorella di lui, Paolina, fino al 1837.
Siamo in un atteggiamento di pessimismo. Ma forse soltanto il poeta, con intuito più fine, è capace di avvertire il reale dramma della vita, mentre gli altri uomini vivono spensierati e felici (pessimismo individuale: Il passero solitario). Non è vero, riconosce Leopardi: tutti gli uomini, quando aprono gli occhi sulla realtà, all'apparir del vero, sono delusi perchè la natura, madre e vita, che prima era apparsa bella e benevola alimentatrice della speranza umana, si manifesta come una spietata matrigna che gode sottrare tutte le illusioni che aveva suscitato; quindi tutti sono soggetti alla stessa legge di disinganno (pessimismo umano o storico : A Silvia).
Allora sono felici gli esseri irrazionali, inconsapevoli di speranze e di dolori? No, dice il poeta; la natura che rende infelice l'uomo forse rende infelici anche tutti gli altri esseri del creato che non sono capaci di esprimere la loro sofferenza (pessimismo cosmico: Canto di un pastore errante dell'Asia).
Tuttavia questo pessimismo così totale non distrugge la poesia del Leopardi, anzi ne è la struttura portante e la eleva alle note più alte. Nell'antagonismo tra ragione e sentimento, tra cervello e cuore, sentiamo prevalere le immagini liriche che cantano la bellezza della natura e la realtà poetica delle scene paesane (La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio...).
Non si può, quindi, parlare, per Leopardi di un pessimismo in senso filosofico che porterebbe alla negazione assoluta della vita; il pessimismo leopardiano non spegne nell'anima il sogno, ma suscita la commozione; il poeta, anche amareggiato dalle delusioni, non può fare a meno di godere delle bellezze di quella stessa natura che vorrebbe odiare. E così canta la primavera e l'età più bella della vita, la fanciullezza spensierata e adolescenza in cui fioriscono i sogni e le speranze, ma non la giovinezza che, presa coscienza della triste realtà, vede il sogno frantumarsi nella delusione e la gioia naufragare nel vero (A SIlvia).
Per Leopardi ci sono 3 maniere di vedere le cose e mettersi in relazione con la realtà.
La 1° che è la più bella e coinvolgere tutti coloro che tendono ad andare oltre l'apparenza sensibile è tipica delle persone sensibili per loro tutto ciò che li circonda è vissuto con pienezza con la capacità di andare al di là delle cose per esaltare la loro condizione e vivere l'esperienza del sublime i suoni, i colori coinvolgono dentro e tutto viene visto in luce positiva.
La 2° è la maniera di vedere le cose di quelli che non riescono ad immaginare e non hanno sentimento limitandosi all'apparenza sensibile, le cose hanno un nome, un corpo, vengono guardate per quello che sono e come tali si utilizzano.
Mentre le altre sono follaci, la sola che risponde alla verità filosofica, è la 3°, cioè che le cose non hanno né anima né corpo, per cui i filosofi passando direttamente dalla prima concezione a quest'ultima si trovano e sentono dappertutto il vuoto, e dell'inutilità delle tante preoccupazioni umane dei desideri delle speranze e di tutte le illusioni (ritrova il tema del vero e del nulla.
Negli Idilli, componimenti di soggetto georgico e semplice, a imitazione del poeta greco Mosco che egli tradusse, il Leopardi volle esprimere situazioni, affezioni, avventure dell'animo suo proprio. SI dividono in piccoli e grandi Idilli e, in generale, sono l'espressione più pura della poesia leopardiana.
OPERETTE MORALI: è questo il titolo di una raccolta di 24 prose (di cui alcune in forma di dialogo) scritte quasi tutte fra il 1824 e il 1827, un periodo in cui il poeta credette di non avere più inspirazione per la poesia. In esse il poeta ci offre un'esposizione, sotto certi aspetti organica, del suo pensiero e, soprattutto, ci dà la possibilità di intendere il suo cosiddetto pessimismo seguendo alcuni motivi di riflessione trasfigurati in motivi fantastici come Felicità, Piacere, Noia, Speranza, ecc. Questi scritti più che per la profondità del contenuto, si impongono per l'eleganza dello stile e possono essere considerati quasi come un commento ai Canti.
PENSIERI: sono 111 in tutto e, sebbene scritti in uno stile molto curato, denotato una profonda stanchezza; essi sono ricollegati alle ultime poesie del Leopardi, al suo stato d'animo pieno di amarezza e di dolente disinganno.
ZIBALDONE: una raccolta di note, appunti, riflessioni, commenti, osservazioni linguistiche, versi ecc. che il poeta annotò giornalmente fra il 1817 e il 1827 (oltre tremila pagine!). Fu pubblicato nel 1898, nel centenario della sua nascita.
Giacomo Leopardi è nato a Recanati nel 1798 da una famiglia di antica nobiltà ma con scarse risorse economiche, crebbe in un ambiente chiuso e retrivo di provincia, di cui sentì sempre l'oppressione (suo unico rifugio l'abbandono dell'anima ai sogni e alle speranze). Di intelligenza e sensibilità precoci, dopo una prima educazione ricevuta dal padre, conte Monaldo, e dai precettori, appena decenne si dedicò a una ricerca intensa, da autodidatta, nella ricca biblioteca paterna e consumò sette anni in uno studio matto e disperatissimo. Acquistò, così, una perfetta conoscenza del greco, del latino, dell'ebraico e delle lingue moderne. All'età di quattordici anni già componeva in versi e scriveva prose non prive di valore letterario. Intanto, mentre sempre più chiara si andava manifestando la sua spiritualità di poeta, il suo fisico era fiaccato da dolorose infermità che lo costrinsero ad allentare gli studi. Fu per lui un grande dolore che incise non poco sulla sua concezione della vita come delusione e amarezza. In questi anni si allontanò dalla fede cristiana e aderì alle teorie materialiste e meccaniciste che escludevano ogni prospettiva soprannaturale.
Insofferente dell'ambiente gretto del selvaggio borgo natio, tormentato da un profondo travaglio interiore, dopo un tentativo di fuga, nel 1822 ottenne di recarsi a Roma. Ma anche qui la vita gli apparve meschina e noiosa, perciò l'anno successivo ritornò a Recanati.
Sempre desideroso di evasione, nel 1825 si trasferì a Milano dove si guadagnò la vita presso l'editore Stella con cui aveva un contratto per sovrintendere a una edizione delle opere di Cicerone; ma le condizioni di salute non gli permisero di completare l'opera. Nella capitale lombarda restò per breve tempo; fu quindi a Bologna, a Firenze, a Pisa ove gli sembrò di avere trovato un ristoro alle sue sofferenze.
Peggiorate tuttavia le condizioni di salute, nel 1828 ritornò alla casa paterna; ma sentì presto, di nuovo, l'oppressione del chiuso ambiente della famiglia e della provincia da cui si allontanò definitivamente due anni dopo, per raggiungere Firenze, a Pisa ove gli sembrò di avere trovato un ristoro alle sue sofferenze.
Peggiorate tuttavia le condizioni di salute, nel 1828 ritornò alla casa paterna; ma sentì presto, di nuovo, l'oppressione del chiuso ambiente della famiglia e della provincia da cui si allontanò definitivamente due anni dopo, per raggiungere Firenze. Qui lo avevano richiamato alcuni amici devoti e generosi e qui conobbe Antonio Ranieri, un giovane esule politico napoletano. A Firenze il Leopardi concepì un grande amore per Fanny Targioni Tozzetti, ma l'infelice delusione che ne ebbe prostrò ulteriormente il suo animo. Nel 1833, sempre più angosciato e più ammalato, accettò l'invito del Ranieri di recarsi a Napoli dove visse, assistito fraternamente dall'amico e dalla sorella di lui, Paolina, fino al 1837.
Le idee e la poetica
La poesia del Leopardi rientra nel filone del Romanticismo pur conservando caratteristiche originali. Egli dice che la poesia deve nascere da un sentimento sincero, da quel senso vago e profondo che ribolle nell'animo. La poesia deve essere soprattutto musica e perciò svincolata dalla rima (ecco perchè nelle sue liriche preferisce il metro libero, un fluire di endecasillabi e settenari sorretti dal ritmo melodico). Di qui il titolo di Canti o voci dell'anima. Ma l'anima leopardiana è costantemente incline alla malinconia: la vita appare al poeta come dolore; la gioia, egli dice, è soltanto momentanea, è cessazione di dolore c'è la noia, il tedio, peggiore della sofferenza stessa perchè spegne nel cuore il desiderio di vivere. Molti dei Canti si aprono con note avvincenti: canti di uccelli, paesaggi sereni, primavere in fiore; poi la meditazione porta il poeta a considerazioni amare perché egli vede in quella affascinante bellezza un subdolo inganno per l'uomo, vittima inerme di una continua, latente malvagità della natura.Siamo in un atteggiamento di pessimismo. Ma forse soltanto il poeta, con intuito più fine, è capace di avvertire il reale dramma della vita, mentre gli altri uomini vivono spensierati e felici (pessimismo individuale: Il passero solitario). Non è vero, riconosce Leopardi: tutti gli uomini, quando aprono gli occhi sulla realtà, all'apparir del vero, sono delusi perchè la natura, madre e vita, che prima era apparsa bella e benevola alimentatrice della speranza umana, si manifesta come una spietata matrigna che gode sottrare tutte le illusioni che aveva suscitato; quindi tutti sono soggetti alla stessa legge di disinganno (pessimismo umano o storico : A Silvia).
Allora sono felici gli esseri irrazionali, inconsapevoli di speranze e di dolori? No, dice il poeta; la natura che rende infelice l'uomo forse rende infelici anche tutti gli altri esseri del creato che non sono capaci di esprimere la loro sofferenza (pessimismo cosmico: Canto di un pastore errante dell'Asia).
Tuttavia questo pessimismo così totale non distrugge la poesia del Leopardi, anzi ne è la struttura portante e la eleva alle note più alte. Nell'antagonismo tra ragione e sentimento, tra cervello e cuore, sentiamo prevalere le immagini liriche che cantano la bellezza della natura e la realtà poetica delle scene paesane (La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio...).
Non si può, quindi, parlare, per Leopardi di un pessimismo in senso filosofico che porterebbe alla negazione assoluta della vita; il pessimismo leopardiano non spegne nell'anima il sogno, ma suscita la commozione; il poeta, anche amareggiato dalle delusioni, non può fare a meno di godere delle bellezze di quella stessa natura che vorrebbe odiare. E così canta la primavera e l'età più bella della vita, la fanciullezza spensierata e adolescenza in cui fioriscono i sogni e le speranze, ma non la giovinezza che, presa coscienza della triste realtà, vede il sogno frantumarsi nella delusione e la gioia naufragare nel vero (A SIlvia).
Per Leopardi ci sono 3 maniere di vedere le cose e mettersi in relazione con la realtà.
La 1° che è la più bella e coinvolgere tutti coloro che tendono ad andare oltre l'apparenza sensibile è tipica delle persone sensibili per loro tutto ciò che li circonda è vissuto con pienezza con la capacità di andare al di là delle cose per esaltare la loro condizione e vivere l'esperienza del sublime i suoni, i colori coinvolgono dentro e tutto viene visto in luce positiva.
La 2° è la maniera di vedere le cose di quelli che non riescono ad immaginare e non hanno sentimento limitandosi all'apparenza sensibile, le cose hanno un nome, un corpo, vengono guardate per quello che sono e come tali si utilizzano.
Mentre le altre sono follaci, la sola che risponde alla verità filosofica, è la 3°, cioè che le cose non hanno né anima né corpo, per cui i filosofi passando direttamente dalla prima concezione a quest'ultima si trovano e sentono dappertutto il vuoto, e dell'inutilità delle tante preoccupazioni umane dei desideri delle speranze e di tutte le illusioni (ritrova il tema del vero e del nulla.
Opere del Leopardi:
CANTI: sotto questo titolo il poeta raccolse 41 componimenti lirici, scritti dal 1818 fino agli ultimi giorni di vita. Non sono comprese nella raccolta l'Appressamento della morte e alcune altre poesie minori. Secondo i motivi d'ispirazione e le caratteristiche dello stile, i Canti comprendono canzoni patriottiche, canzoni di contenuto filosofico o dottrinale, idilli, liriche d'amore.Negli Idilli, componimenti di soggetto georgico e semplice, a imitazione del poeta greco Mosco che egli tradusse, il Leopardi volle esprimere situazioni, affezioni, avventure dell'animo suo proprio. SI dividono in piccoli e grandi Idilli e, in generale, sono l'espressione più pura della poesia leopardiana.
OPERETTE MORALI: è questo il titolo di una raccolta di 24 prose (di cui alcune in forma di dialogo) scritte quasi tutte fra il 1824 e il 1827, un periodo in cui il poeta credette di non avere più inspirazione per la poesia. In esse il poeta ci offre un'esposizione, sotto certi aspetti organica, del suo pensiero e, soprattutto, ci dà la possibilità di intendere il suo cosiddetto pessimismo seguendo alcuni motivi di riflessione trasfigurati in motivi fantastici come Felicità, Piacere, Noia, Speranza, ecc. Questi scritti più che per la profondità del contenuto, si impongono per l'eleganza dello stile e possono essere considerati quasi come un commento ai Canti.
PENSIERI: sono 111 in tutto e, sebbene scritti in uno stile molto curato, denotato una profonda stanchezza; essi sono ricollegati alle ultime poesie del Leopardi, al suo stato d'animo pieno di amarezza e di dolente disinganno.
ZIBALDONE: una raccolta di note, appunti, riflessioni, commenti, osservazioni linguistiche, versi ecc. che il poeta annotò giornalmente fra il 1817 e il 1827 (oltre tremila pagine!). Fu pubblicato nel 1898, nel centenario della sua nascita.