Pirandello, nato nel 1867, si formò in una fase segnata da una duplice crisi:
da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia postrisorgimentale;
dall’altra, la crisi della cultura positivistica, corrispondente alla caduta dei valori e delle certezze acquisite.
La crisi storica e sociale era particolarmente avvertita nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia; già Verga l’aveva rappresentata nei romanzi e nelle novelle. Sui temi della prepotenza dello stato centralistico e del tradimento di ogni vera prospettiva unitaria e nazionale, Pirandello darà un vasto e pessimistico affresco, nel 1909, con I vecchi e i giovani, il suo romanzo storico.
Ma ancora più grave è l’altra crisi. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo esterno e, soprattutto, non conosce più se stesso e non si appartiene più.
Da queste riflessioni deriva il relativismo di Pirandello. Già in un saggio giovanile, Arte e coscienza d’oggi, risalente al 1893, Pirandello denunciava profeticamente la relatività di ogni cosa: Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale ce il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata.
La condizione copernicana
Un simbolo del relativo, secondo Pirandello, è Copernico, il primo a vedere nel XVI secolo che è la Terra a girare intorno al sole, e non viceversa: un mutamento epocale, che incrinò molte certezze. Perciò: Maledetto sia Copernico!, dirà Mattia Pascal nel romanzo di cui è protagonista (1904). Il suo ospite romano, Anselmo Paleari, troverà una metafora straordinaria per esprimere la condizione copernicana dell’umanità di oggi (siamo nel XII capitolo del Fu Mattia Pascal): un tempo, dice Paleari, sui teatrini di marionette si stendeva un bel cielo di carta (metafora del mondo), e da lì il burattinaio (metafora di Dio) guidava le sue marionette; ma ora si è prodotto uno strappo nel cielo di carta del teatrino, e nulla è più in ordine, ben regolato.
La personalità molteplice
La crisi generale si accompagna poi alla crisi dell’individuo: l’opera di Pirandello, che a differenza di Svevo non lesse direttamente Freud, è piena di richiami al mondo dell’inconscio, al sogno, alla follia. Egli lesse infatti già nell’originale francese Le alterazioni della personalità (1892), un libro dello psicologo Alfred Binet (1857-1911), precursore di Freud e della psicoanalisi. Da Binet lo scrittore siciliano apprese l’idea che la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia, cioè, a seconda delle situazioni e delle convivenze.
Questo spunto, lungamente meditato e rielaborato, suggerì a Pirandello l’idea che noi non siamo sempre uguali a noi stessi: cambiamo, fino al punto di non riconoscerci più e diventare altro da noi stessi. Nasce da qui uno dei più caratteristici temi pirandelliani, la follia.
Essa scoppia nel momento in cui i personaggi si scoprono contemporaneamente uno e due, come lo Stefano Giogli protagonista della novella omonima (1909); si scoprono uno, nessuno e centomila, come Vitangelo Moscarda, protagonista dell’omonimo romanzo del 1925-26. Lo sdoppiamento, la dissociazione interiore non può non generare un’angoscia profonda, che si traduce appunto, all’esterno, in follia.
La vita e le forme
Accanto a Binet, un’altra fonte decisiva, per Pirandello, fu il Saggio sul genio nell’arte (1884) del filosofo francese Gabriel Séailles (1852-1922). In quest’opera Pirandello trovò un’importante suggestione: noi non percepiamo le cose per come esse sono, ma le apprendiamo soggettivamente, per come ci appaiono, a seconda della nostra educazione, della nostra mentalità e della situazione in cui ci troviamo. La vita ci si mostra in base a quello che Pirandello definirà il nostro sentimento della vita. Così egli scriverà nel saggio L’umorismo: Noi non abbiamo della vita un’idea, una nozione: abbiamo un sentimento, mutabile e vario, a seconda dei casi e della fortuna.
Infine, dal libro Le finzioni dell’anima (1905) del pedagogista italiano Giovanni Marchesini (1868-1931) ricavò l’idea che non esistono valori morali certi: l’idea del bene, il dovere e gli altri valori sono semplici credenze, che Pirandello chiamerà forme. Si tratta di ideali astratti, di convenzioni prive di sostanza: poiché si oppongono al flusso della vita, bloccano la libera esplicazione delle nostre energie vitali. Tale contrasto fra Vita e forma è uno dei grandi temi pirandelliani.
Poetica dell’Umorismo
Quelle che abbiamo esposto sono le idee che Pirandello recepì da molteplici fonti e che rielaborò nel suo personale relativismo. La traduzione letteraria del relativismo fu l’umorismo, come Pirandello stesso volle battezzare la propria poetica nel più importante fra i suoi saggi teorici, L’umorismo (1908). In esso l’autore esamina l’arte umoristica che rese grandi alcuni autori del passato, come Ariosto, Cervantes, Manzoni; ma in realtà vuole parlare soprattutto di sé e della propria arte.
Secondo Pirandello, l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela. La prerogativa dell’umorista è appunto vedere il contrario di tutte le cose (cioè il loro lato nascosto): nascono di qui i tanti casi paradossali, le stranezze, le situazioni abnormi tipiche delle pagine pirandelliane. Eppure l’umorista non è lieto di una simile capacità; come le antiche statue (erme) a due facce, anch’egli è un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. Chiarisce Pirandello: Vi prego di credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad essere quasi sempre fuori di chiave, a essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il si e il no lo tengano sospeso, perplesso, per tutta la vita.
La s-ragione pirandelliana
L’umorismo di Pirandello attribuisce un ruolo di primo piano alla ragione e, in effetti, i suoi personaggi discutono, distinguono, spiegano, ragionano con accanimento.
Tuttavia, le loro vicende dimostrano che è impossibile una qualsiasi conclusione razionale, una sintesi, visto che la vita stessa, a parere di Pirandello, non conclude. Egli, dunque, non ha alcuna fiducia nella ragione, e se la usa è per dimostrare che essa non conduce da nessuna parte. E’ un tema profondamente novecentesco, in quanto antipositivistico, cioè contro ogni progresso derivato dall’uso della ragione. Ragionare significa, per Pirandello, sragionare; perciò, nell’Umorismo, la logica viene definita una macchinetta infernale, un diabolico meccanismo, che nega e capovolge la fiducia ottocentesca nella scienza e nel progresso. Il pensiero razionale, in Pirandello, si sovverte nel suo esatto contrario: conduce non a vivere, ma a non vivere. E’ il trionfo dell’irrazionalismo.
Il contrario, l’ombra e l’oltre sono i temi dell’umorismo
L’arte che nasce da tale concezione, cioè l’arte umoristica, non potrà che essere assai diversa da quella a cui siamo abituati: sarà un’arte paradossale, che rivela il contrario, l’ombra, l’oltre (tutte parole chiave per Pirandello). Il contrario è ciò che la riflessione umoristica scopre: la realtà non è mai pacifica e neutra come potrebbe sembrare. L’ombra è il lato nascosto delle cose, e solo l’umorista può vederlo; essa rappresenta anche l’altro me stesso, l’io segreto che affiora in certi momenti di vuoto interiore. Si tratta di una concezione molto simile a quella di inconscio (freudiano). Infine, l’oltre: un mondo (a cui l’umorista aspira) fatto di sincerità e autenticità, attingibile forse nella condizione dell’infanzia o in una vita più naturale; ma è una sfera lontanissima dalla vita quotidiana, che è invece governata dalle apparenze e dalle regole sociali, che Pirandello chiama forme.
Secondo Pirandello, noi tutti finiamo per accettare queste forme e indossiamo la nostra maschera di rispettabilità. Ebbene, l’umorista rivela queste falsità, strappa la maschera dal viso suo e di tutti e rivela ciò che essa nasconde: il contrario, l’ombra, l’oltre. Per lui, che ha osato tanto, non potranno esserci che un destino di esclusione dalla vita sociale e l’accusa di pazzia, Ma Pirandello sospetta che, fin dei conti, ad avere ragione siano proprio i pazzi, o meglio, i saggi-folli (e umoristi) come Mattia Pascal o come Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.
La rivoluzione di autore e personaggio
Anche l’autore-umorista non può che essere il contrario degli autori della tradizione: invece di ragionare, sragiona; invece di mettere se stesso al centro dell’opera, come il poeta-genio del Romanticismo, si emargina; invece di comporre opere belle, lascia che nelle sue pagine emerga la relatività di ogni cosa, e che ciò avvenga nella forma più adeguata, cioè caotica e scomposta.
E’ così che la nuova arte umorista rivela le molteplici, confuse apparenze dell’esistere. Il traguardo di quest’arte è il trionfo del caos: Pirandello stesso si definiva figlio del Caos, ricordando di essere nato in una campagna che gli abitanti di Agrigento chiamavano Càvusu, Caos.
Il personaggio senza autore
Caos della vita, caos dell’arte. Questa concezione trova espressione nella nuovissima poetica del personaggio senza autore. In una novella del 1906, Personaggi, Pirandello immagina un autore che dà udienza ai suoi personaggi: si presenta davanti a lui un certo Leandro Scoto, che gli chiede di essere fatto vivere in un’opera d’arte. L’autore non accetta, eppure il dottor Scoto è vivo e reale, di fronte a lui! Il tema, del tutto originale, dei personaggi nati senza l’intervento dell’autore e che si recano a fargli visita ritornerà in altre novelle (La tragedia di un personaggio, del 1911) Colloqui coi personaggi, del 1915); diventerà il nucleo centrale di Sei personaggi in cerca d’autore, il famoso dramma del 1921.
Già Verga aveva parlato di un’opera che sembrerà essersi fatta da sé; ma solo sembrerà. Invece Pirandello teorizza un’arte che non solo sembra, ma è autonoma dal suo autore: l’opera nasce e senza l’intervento dell’autore, addirittura fuori dalla sua volontà, contro l’autore stesso. L’autore infatti non vorrebbe dare spazio a quelle creature della fantasia che si sono impossessate di lui; non vorrebbe, ma alla fine i fantasmi della mente gli prendono la mano ed egli è costretto a lasciare che si appoggia a questa idea di spossessamento dell’autore: risultato di una poetica nuova e sperimentale, vicina alla riduzione della letteratura elaborata da Svevo in quegli stessi anni.
da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia postrisorgimentale;
dall’altra, la crisi della cultura positivistica, corrispondente alla caduta dei valori e delle certezze acquisite.
La crisi storica e sociale era particolarmente avvertita nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia; già Verga l’aveva rappresentata nei romanzi e nelle novelle. Sui temi della prepotenza dello stato centralistico e del tradimento di ogni vera prospettiva unitaria e nazionale, Pirandello darà un vasto e pessimistico affresco, nel 1909, con I vecchi e i giovani, il suo romanzo storico.
Ma ancora più grave è l’altra crisi. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo esterno e, soprattutto, non conosce più se stesso e non si appartiene più.
Da queste riflessioni deriva il relativismo di Pirandello. Già in un saggio giovanile, Arte e coscienza d’oggi, risalente al 1893, Pirandello denunciava profeticamente la relatività di ogni cosa: Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale ce il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata.
La condizione copernicana
Un simbolo del relativo, secondo Pirandello, è Copernico, il primo a vedere nel XVI secolo che è la Terra a girare intorno al sole, e non viceversa: un mutamento epocale, che incrinò molte certezze. Perciò: Maledetto sia Copernico!, dirà Mattia Pascal nel romanzo di cui è protagonista (1904). Il suo ospite romano, Anselmo Paleari, troverà una metafora straordinaria per esprimere la condizione copernicana dell’umanità di oggi (siamo nel XII capitolo del Fu Mattia Pascal): un tempo, dice Paleari, sui teatrini di marionette si stendeva un bel cielo di carta (metafora del mondo), e da lì il burattinaio (metafora di Dio) guidava le sue marionette; ma ora si è prodotto uno strappo nel cielo di carta del teatrino, e nulla è più in ordine, ben regolato.
La personalità molteplice
La crisi generale si accompagna poi alla crisi dell’individuo: l’opera di Pirandello, che a differenza di Svevo non lesse direttamente Freud, è piena di richiami al mondo dell’inconscio, al sogno, alla follia. Egli lesse infatti già nell’originale francese Le alterazioni della personalità (1892), un libro dello psicologo Alfred Binet (1857-1911), precursore di Freud e della psicoanalisi. Da Binet lo scrittore siciliano apprese l’idea che la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia, cioè, a seconda delle situazioni e delle convivenze.
Questo spunto, lungamente meditato e rielaborato, suggerì a Pirandello l’idea che noi non siamo sempre uguali a noi stessi: cambiamo, fino al punto di non riconoscerci più e diventare altro da noi stessi. Nasce da qui uno dei più caratteristici temi pirandelliani, la follia.
Essa scoppia nel momento in cui i personaggi si scoprono contemporaneamente uno e due, come lo Stefano Giogli protagonista della novella omonima (1909); si scoprono uno, nessuno e centomila, come Vitangelo Moscarda, protagonista dell’omonimo romanzo del 1925-26. Lo sdoppiamento, la dissociazione interiore non può non generare un’angoscia profonda, che si traduce appunto, all’esterno, in follia.
La vita e le forme
Accanto a Binet, un’altra fonte decisiva, per Pirandello, fu il Saggio sul genio nell’arte (1884) del filosofo francese Gabriel Séailles (1852-1922). In quest’opera Pirandello trovò un’importante suggestione: noi non percepiamo le cose per come esse sono, ma le apprendiamo soggettivamente, per come ci appaiono, a seconda della nostra educazione, della nostra mentalità e della situazione in cui ci troviamo. La vita ci si mostra in base a quello che Pirandello definirà il nostro sentimento della vita. Così egli scriverà nel saggio L’umorismo: Noi non abbiamo della vita un’idea, una nozione: abbiamo un sentimento, mutabile e vario, a seconda dei casi e della fortuna.
Infine, dal libro Le finzioni dell’anima (1905) del pedagogista italiano Giovanni Marchesini (1868-1931) ricavò l’idea che non esistono valori morali certi: l’idea del bene, il dovere e gli altri valori sono semplici credenze, che Pirandello chiamerà forme. Si tratta di ideali astratti, di convenzioni prive di sostanza: poiché si oppongono al flusso della vita, bloccano la libera esplicazione delle nostre energie vitali. Tale contrasto fra Vita e forma è uno dei grandi temi pirandelliani.
Poetica dell’Umorismo
Quelle che abbiamo esposto sono le idee che Pirandello recepì da molteplici fonti e che rielaborò nel suo personale relativismo. La traduzione letteraria del relativismo fu l’umorismo, come Pirandello stesso volle battezzare la propria poetica nel più importante fra i suoi saggi teorici, L’umorismo (1908). In esso l’autore esamina l’arte umoristica che rese grandi alcuni autori del passato, come Ariosto, Cervantes, Manzoni; ma in realtà vuole parlare soprattutto di sé e della propria arte.
Secondo Pirandello, l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela. La prerogativa dell’umorista è appunto vedere il contrario di tutte le cose (cioè il loro lato nascosto): nascono di qui i tanti casi paradossali, le stranezze, le situazioni abnormi tipiche delle pagine pirandelliane. Eppure l’umorista non è lieto di una simile capacità; come le antiche statue (erme) a due facce, anch’egli è un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. Chiarisce Pirandello: Vi prego di credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad essere quasi sempre fuori di chiave, a essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il si e il no lo tengano sospeso, perplesso, per tutta la vita.
La s-ragione pirandelliana
L’umorismo di Pirandello attribuisce un ruolo di primo piano alla ragione e, in effetti, i suoi personaggi discutono, distinguono, spiegano, ragionano con accanimento.
Tuttavia, le loro vicende dimostrano che è impossibile una qualsiasi conclusione razionale, una sintesi, visto che la vita stessa, a parere di Pirandello, non conclude. Egli, dunque, non ha alcuna fiducia nella ragione, e se la usa è per dimostrare che essa non conduce da nessuna parte. E’ un tema profondamente novecentesco, in quanto antipositivistico, cioè contro ogni progresso derivato dall’uso della ragione. Ragionare significa, per Pirandello, sragionare; perciò, nell’Umorismo, la logica viene definita una macchinetta infernale, un diabolico meccanismo, che nega e capovolge la fiducia ottocentesca nella scienza e nel progresso. Il pensiero razionale, in Pirandello, si sovverte nel suo esatto contrario: conduce non a vivere, ma a non vivere. E’ il trionfo dell’irrazionalismo.
Il contrario, l’ombra e l’oltre sono i temi dell’umorismo
L’arte che nasce da tale concezione, cioè l’arte umoristica, non potrà che essere assai diversa da quella a cui siamo abituati: sarà un’arte paradossale, che rivela il contrario, l’ombra, l’oltre (tutte parole chiave per Pirandello). Il contrario è ciò che la riflessione umoristica scopre: la realtà non è mai pacifica e neutra come potrebbe sembrare. L’ombra è il lato nascosto delle cose, e solo l’umorista può vederlo; essa rappresenta anche l’altro me stesso, l’io segreto che affiora in certi momenti di vuoto interiore. Si tratta di una concezione molto simile a quella di inconscio (freudiano). Infine, l’oltre: un mondo (a cui l’umorista aspira) fatto di sincerità e autenticità, attingibile forse nella condizione dell’infanzia o in una vita più naturale; ma è una sfera lontanissima dalla vita quotidiana, che è invece governata dalle apparenze e dalle regole sociali, che Pirandello chiama forme.
Secondo Pirandello, noi tutti finiamo per accettare queste forme e indossiamo la nostra maschera di rispettabilità. Ebbene, l’umorista rivela queste falsità, strappa la maschera dal viso suo e di tutti e rivela ciò che essa nasconde: il contrario, l’ombra, l’oltre. Per lui, che ha osato tanto, non potranno esserci che un destino di esclusione dalla vita sociale e l’accusa di pazzia, Ma Pirandello sospetta che, fin dei conti, ad avere ragione siano proprio i pazzi, o meglio, i saggi-folli (e umoristi) come Mattia Pascal o come Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.
La rivoluzione di autore e personaggio
Anche l’autore-umorista non può che essere il contrario degli autori della tradizione: invece di ragionare, sragiona; invece di mettere se stesso al centro dell’opera, come il poeta-genio del Romanticismo, si emargina; invece di comporre opere belle, lascia che nelle sue pagine emerga la relatività di ogni cosa, e che ciò avvenga nella forma più adeguata, cioè caotica e scomposta.
E’ così che la nuova arte umorista rivela le molteplici, confuse apparenze dell’esistere. Il traguardo di quest’arte è il trionfo del caos: Pirandello stesso si definiva figlio del Caos, ricordando di essere nato in una campagna che gli abitanti di Agrigento chiamavano Càvusu, Caos.
Il personaggio senza autore
Caos della vita, caos dell’arte. Questa concezione trova espressione nella nuovissima poetica del personaggio senza autore. In una novella del 1906, Personaggi, Pirandello immagina un autore che dà udienza ai suoi personaggi: si presenta davanti a lui un certo Leandro Scoto, che gli chiede di essere fatto vivere in un’opera d’arte. L’autore non accetta, eppure il dottor Scoto è vivo e reale, di fronte a lui! Il tema, del tutto originale, dei personaggi nati senza l’intervento dell’autore e che si recano a fargli visita ritornerà in altre novelle (La tragedia di un personaggio, del 1911) Colloqui coi personaggi, del 1915); diventerà il nucleo centrale di Sei personaggi in cerca d’autore, il famoso dramma del 1921.
Già Verga aveva parlato di un’opera che sembrerà essersi fatta da sé; ma solo sembrerà. Invece Pirandello teorizza un’arte che non solo sembra, ma è autonoma dal suo autore: l’opera nasce e senza l’intervento dell’autore, addirittura fuori dalla sua volontà, contro l’autore stesso. L’autore infatti non vorrebbe dare spazio a quelle creature della fantasia che si sono impossessate di lui; non vorrebbe, ma alla fine i fantasmi della mente gli prendono la mano ed egli è costretto a lasciare che si appoggia a questa idea di spossessamento dell’autore: risultato di una poetica nuova e sperimentale, vicina alla riduzione della letteratura elaborata da Svevo in quegli stessi anni.