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Taci, anima stanca di godere: parafrasi, analisi, commento - Camillo Sbarbaro

Testo, parafrasi, analisi, commento e figure retoriche della poesia "Taci, anima stanca di godere" di Camillo Sbarbaro, inclusa nella raccolta Pianissimo.


Testo

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo.
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.



Parafrasi

O anima stanca di provare piacere e di soffrire (ti accosti rassegnata a queste due sensazioni, ormai), stai zitta.
Se ascolto non sento nessun suono da parte tua: né di rimpianto per la giovinezza degna di commiserazione, né una voce d'ira o di speranza, e neppure una voce che dichiari la tua insofferenza.
Giaci, sei abbattuta come il tuo corpo, ammutolita, in una rassegnazione senza speranze.
Non ci stupiremmo, anima mia, non è vero, se il cuore si fermasse, se ci fosse interrotto il respiro...
E invece procediamo, io e te avanziamo come sonnambuli.
E le piante sono piante, e gli edifici sono edifici, le donne che transitano sono donne, e tutto ciò che si vede è solamente ciò che è.
Questo alternarsi di felicità e di patimento non ci sfiora.
Gli incanti, le cose affascinanti e meravigliose del mondo non ci dicono più nulla, e il mondo è una immensa distesa arida. In questo deserto io osservo, con occhi asciutti di pianto, il mio essere.



Analisi del testo


Temi: l'alienazione come sentimento di estraneità da tutto, l'io ridotto a cosa e il mondo ridotto a deserto, la rassegnazione di fronte a tale condizione.

Anno: 1914.

Schema metrico: versi liberi, con prevalenza di endecasillabi; vi sono settenari, qualche novenario e altre misure più brevi.


In questo componimento si trovano i temi fondamentali della poesia di Sbarbaro e la sua tipica disposizione di fronte alla realtà. Il poeta stabilisce una sorta di colloquio interiore con la propria anima (notare il vocativo al verso 12), invitandola al silenzio, perché incapace oramai di reagire di fronte alle cose.

Taci = già questo "taci" nasce da uno sconfinato bisogno di non alzare mai la voce, in un libro dove il poeta vorrebbe confidarsi all'anima in tono estremamente basso. Di qui il titolo Pianissimo dato alla raccolta, di cui questo è il primo componimento.

L'anima, insensibile alla gioia e al dolore, stanca di ogni esperienza, tace, e neppure il mondo parla più al poeta; ne deriva la rassegnazione disperata del v. 10.

Muta e inerte, l'anima non esprime più alcun sentimento vitale, né per il passato (il «rimpianto»), né per il futuro (la «speranza»), né per il presente, sia come reazione critica (l'«ira») sia come ripiegamento impotente (il «tedio»).

L'anima è diventata pesante come il corpo e l'uso del verbo "giacere" (v. 8) indica l'abbattimento dell'uomo nella sua totalità, non senza una affettuosa, anche se dolente, solidarietà, sottolineata dal passaggio, nella strofa successiva, alla prima persona plurale (con ulteriore specificazione, al v. 16, dell'«io e te»).

A questo punto la vita diventa simile alla morte, né ci sarebbe da stupirsi se le funzioni vitali (il «cuore», il «fiato») si arrestassero e venissero meno. Tuttavia l'esistenza continua (si noti l'avversativa «Invece», in apertura di verso, in questa sua dimensione, paradossalmente, prima di vita: il verbo «camminiamo» del v. 15, ripetuto più volte all'inizio del verso successivo, indica non solo la monotonia ripetitiva delle azioni quotidiane, ma anche lo sforzo faticoso necessario per compierle  (la ripresa, preceduta dalla virgola che spezza il ritmo del verso precedente, sottolinea la durata lenta e faticosa del movimento). L'uomo è ridotto a sonnambulo, a spettatore estraneo della propria vita (v. 16), che si limita a riprodurre i gesti meccanici di un automa (= marionetta, tema della letteratura del Novecento).

I termini «gioia» e «dolore» (che riconducono la situazione a quella dei versi iniziali) ribadiscono l'estraneità dell'uomo nei confronti del mondo; un mondo che a perso le sue lusinghe (il canto delle sirene, in senso metaforico), riconducendosi a un assoluto silenzio, che è l'equivalente della morte.

Questo senso di vuoto e di estraneità si cristallizza nell'immagine del «deserto», il cui termine appare isolato nel v. 24, quasi a sottolineare il vuoto che lo circonda e l'impossibilità di colmarlo.

Gli «asciutti occhi» indicano l'incapacità di piangere (o l'esaurimento di tutte le lacrime), che chiude la poesia nel segno di una totale aridità.

L'affanno del vivere è visibile oltre nei versi 15-16 («camminiamo / camminiamo») e alla tautologia (= affermazione vuota di informazioni aggiuntive) dei versi 17-20 («gli alberi son alberi, le case son case...») anche nella parte finale, che resta dolorosamente stupita e sorpresa (vv. 23-25: «la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto»).



Figure retoriche

Similitudine = giaci come il corpo (vv. 8-9). Il paragone con il corpo mette in evidenza l'immagine della resa; vi è l'abbattimento quasi fisico dell'anima.

Ossimoro = rassegnazione disperata (v. 10). Sono due concetti contrari, la rassegnazione ci porta alla staticità, il disperato e alla ricerca di una soluzione quindi è dinamico.

Similitudine = come sonnambuli (v. 16). Inteso come spettatore della propria vita.

Metafora = perduto ha la voce la sirena del mondo (v. 22-23). È una creatura leggendaria che non può perdere la voce in quanto non esiste, ma in questo caso s'intendono le lusinghe.

Metafora = il mondo è un grande deserto (vv. 23-24). Per deserto s'intende la vita.

Anastrofe = asciutti occhi (v. 26). La posizione dell'attributo e del sostantivo è invertita.

Enjambement = vv. 1-2; 5-6; 8-9; 9-10; 12-13; 13-14; 17-18; 18-19; 19-20; 21-22; 22-23; 23-24; 25-26.



Commento

Parla dell'apatia di un uomo e della sua anima, stanca di sentire, sia in bene che in male, che è muta, non ha rimorsi né rimpianti ma è immobile. Nella seconda parte il poeta mette in ballo anche il corpo, se all'interno tutto è morto, il corpo continua a vivere e si rammarica di questo perché rappresenta una prigione dove lui è costretto a vagare senza meta né ambizione.
Alla fine anche il mondo esterno perde il suo significato, le cose sono tali e niente di più.
"La vicenda di gioia e di dolore non si tocca" può significare la superficialità, la riluttanza degli esseri umani a qualcosa di profondo.
"Perduto ha la voce la sirena del mondo" è una metafora, può indicare la perdita da parte di tutti gli esseri che compongono il mondo (quindi la voce del mondo) di un valore per cui valga la pena vivere e lottare.
"Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso" guardando l'aridità di questo mondo il poeta vede se stesso, fa un riferimento a quello che è l'inizio della poesia. È un cerchio che si chiude, lui e la sua anima si sentono tanto apatici perché è il mondo ad essere indifferente alla stessa realtà che vive.



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