(Dante incontra l'anima di Guido da Montefeltro, che un diavolo disputò con successo a S. Francesco). Dopo le parole di Ulisse, un'altra fiamma attira i due poeti, muovendosi. Chiede notizie sulla Romagna. Dante fa un quadro della situazione politica della regione, dominata da uomini pronti alla guerra. L’anima si fa riconoscere dicendo: "Fui guerriero e poi frate, credendo così di riparare al male creato. Ma la sua conversione era stata soltanto formale, dettata dalla convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo. Alla sua morte San Francesco venne per portarlo in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole: "Quest’anima deve seguirmi all'inferno, poiché è contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha l’intenzione di compiere. Quando fu davanti a Minosse, questi girò otto volte la coda intorno al suo corpo, destinandolo al cerchio ottavo. Dopo la conversazione, la fiamma si fa indietro e Dante giunge al ponte che domina la bolgia dei seminatori di discordia.
In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 27 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.
Parafrasi
La fiamma (di Ulisse e Diomede) s’era già drizzata e rimaneva ferma (queta)poiché (per) non parlava più, e si allontanava (gia) ormai da noi
con il consenso del dolce poeta,
quando un’altra, che veniva dietro quella,
ci (ne) fece volgere gli occhi verso la sua punta
per un suono indistinto che di là (n’) usciva.
Come il bue (del tiranno) siciliano (cicilian) che la prima volta (prima) muggì
proprio con i lamenti di colui che l’aveva forgiato
con la sua opera (lima), e questa fu cosa giusta,
muggiva per mezzo della voce di colui che era dentro torturato,
così che, nonostante fosse di rame,
sembrava tuttavia tormentato (trafitto) dal dolore;
così le dolenti (grame) parole all’inizio, poiché (per) non avevano
né un tragitto né un’uscita (forame) attraverso la fiamma,
si trasformavano nel suo linguaggio (incomprensibile).
Ma dopo che esse ebbero trovato (colto) il loro cammino (vïaggio)
su verso la punta, imprimendole quel guizzo
che aveva dato loro la lingua al passaggio,
udimmo dire: «O tu, al quale io rivolgo
le parole (voce) e che ora (mo) colloquiavi in lombardo,
dicendo ‘Adesso (Istra) vai pure, perché più non ti sollecito (t’adizzo)’,
benché io sia giunto alquanto tardi,
non ti spiaccia (non t’incresca) di fermarti a parlare con me;
vedi che a me non spiace, eppure brucio!
Se tu sei precipitato ora (mo) in questo mondo senza luce (cieco)
da quella dolce terra italiana (latina)
dove commisi le mie colpe,
dimmi se la gente di Romagna vive (han) in pace o in guerra,
perché io fui originario di quella regione montuosa tra Urbino
e il giogo (gli Appennini) da cui scaturisce (si diserra) il Tevere».
Io ero ancora rivolto in basso (in giuso) intento a osservare (attento),
quando la mia guida mi toccò nel fianco (costa),
dicendo: «Parla tu, costui è italiano (latino)».
E io, che avevo la risposta già pronta,
cominciai a parlare senza indugio:
«O anima, che sei laggiù nascosta,
la Romagna tua non è, e non è mai stata,
senza guerra nel cuore dei tuoi signori (tiranni);
ma adesso non vi lasciai nessuna guerra in atto.
Ravenna si trova nella stessa condizione da molti anni:
l’aquila dei signori da Polenta la protegge (cova),
così che con le sue ali (vanni) ricopre anche Cervia.
La città (terra) che già sostenne (fé) il lungo assedio (prova)
e compì il cruento massacro (mucchio) dei Francesi (Forlì),
si trova sotto gli artigli del verde leone (lo stemma degli Ordelaffi).
E i mastini dei Verrucchio, padre e figlio (Malatesta e Malatestino),
che compirono il terribile omicidio di Montagna (il ghibellino Montagna dei Parcitadi),
nella terra dove sono soliti fanno strazio (succhio) con i denti.
Le città bagnate dal Lamone e dal Santerno (Faenza e Imola)
le governa (conduce) il leoncello dal bianco nido (lo stemma di Maghinardo Pagani),
che cambia partito dall’estate all’inverno.
E quella città (Cesena), cui il fiume Savio lambisce i margini (fianco),
così come ella giace tra il piano e la collina,
vive tra tirannia e libertà.
Ora ti prego di dirci chi sei tu;
non essere restio più di quanto io (altri) sono stato,
e possa il tuo nome lassù nel mondo resistere (tegna fronte) (al tempo)».
Dopo che il fuoco ebbe ruggito un poco
a modo suo, mosse la punta aguzza di qua di là,
e poi uscì con tali parole (fiato):
«Se io sapessi di rispondere a una persona
che potesse ancora (mai) far ritorno su nel mondo,
questa fiamma rimarrebbe senza più movimento (scosse);
ma poiché mai da questo abisso (fondo)
nessuno tornò vivo, se io odo il vero,
ti rispondo senza paura di disonore (infamia).
Io fui uomo d’armi, e poi francescano (cordigliero),
pensando di far penitenza, così cinto;
e certo quanto credevo si sarebbe avverato interamente,
se non fosse stato il più grande dei sacerdoti (il papa Bonifacio VIII), al quale mal prenda!
che nuovamente mi spinse nelle colpe di un tempo;
e voglio che ascolti come e perché.
Fin tanto che la mia anima fu la forma del corpo (d’ossa e di polpe)
che mi diede la madre, le mie azioni
non furono di leone, ma di volpe.
Io conobbi tutte le astuzie e i mezzi subdoli (coperte vie),
e sfruttai (menai) talmente la loro tecnica (arte),
che la fama raggiunse (uscie) gli estremi confini della terra.
Quando raggiunsi quel momento
della vita (etade) in cui ognuno dovrebbe
ammainare le vele e raccogliere le funi (sarte),
quanto prima mi affascinava, allora mi ripugnava,
e, dopo essermi pentito e confessato, mi feci frate (mi rendei);
ahi misero disgraziato! eppure la scelta avrebbe potuto salvarmi.
Il principe dei nuovi Farisei,
conducendo la guerra (avendo guerra) dentro il Laterano (la sede del papa),
e non contro i Saraceni o contro i Giudei,
poiché ogni suo nemico era cristiano,
e nessuno era stato a combattere a San Giovanni d’Acri,
né era stato mercante nella terra del Soldano,
non ebbe riguardo verso di sé per l’altissimo incarico e per gli ordini sacerdotali,
e verso di me per quel cordone francescano
che era solito rendere più mortificati quelli che lo cingevano.
Ma come Costantino mandò a chiamare (chiese) papa Silvestro
dalla grotta del monte Soratte per guarire dalla lebbra,
così costui chiamò me come medico (maestro)
per guarire dalla sua folle febbre (di potere);
mi chiese consiglio, ma io tacqui
poiché le sue mi parvero parole di chi delira (ebbre).
Poi mi disse di nuovo: ‘Il tuo cuore non abbia timori;
io ti assolvo fin d’ora, e tu mostrami
come io possa abbattere (la fortezza di) Palestrina.
Tu ben sai che io ho facoltà di aprire e chiudere (serrare e diserrare) il cielo;
perciò due sono le chiavi
che il mio predecessore non amò’.
Gli autorevoli (gravi) argomenti mi spinsero
al punto di considerare (mi fu avviso) il tacere come il partito peggiore (peggio),
e dissi: ‘Padre, dal momento che tu mi assolvi
da quel peccato in cui io ora (mo) sono obbligato (deggio) a cadere,
ti farà trionfare sull’alto seggio
il promettere molto e il mantenere poco (corto)’.
Quando io morii, giunse Francesco
per la mia anima (per me); ma uno dei neri Cherubini
gli disse: ‘Non portarmelo via, non mi far torto.
Deve venire giù tra i miei sudditi
perché ha dato un consiglio fraudolento
e da allora in poi (dal quale in qua) gli sono stato accanto, pronto ad afferrarlo per i capelli (a’ crini);
poiché non si può assolvere chi non si pente,
e neppure si può insieme pentirsi e desiderare la colpa,
per la contraddizione che non lo consente’.
Oh me infelice! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: ‘Tu forse
non credevi che io fossi un maestro di logica (löico)!’.
Mi portò di fronte a Minosse; e questi avvolse
la coda per otto volte al suo busto rigido (dosso duro);
e dopo che se la morse per la gran rabbia,
disse: ‘Costui è dei dannati del fuoco che nasconde (furo)’;
perciò io sono perduto dove vedi,
e così avvolto dalla fiamma (vestito), andando, mi tormento (rancuro)».
Quando ebbe terminato il suo discorso,
la fiamma tra i lamenti (dolorando) se ne partì,
piegando e scuotendo la punta alta.
Noi andammo oltre, io e la mia guida,
su per il ponte (scoglio) fin su quello seguente
che sovrasta la bolgia (fosso) in cui si fa pagare il fio
a quelli che si aggravano di colpe con il seminar discordie (scommettendo).