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Destino - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Destino" è stata scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti, porta l'indicazione "Mariano il 14 luglio 1916" e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Il porto sepolto.



Indice




Testo

Volti al travaglio
come una qualsiasi
fibra creata
perché ci lamentiamo noi?



Parafrasi

Destinati alla sofferenza
come qualsiasi cosa (creatura)
creata da Dio
perché ci lamentiamo della natura?



Analisi del testo e commento

Questa è una poesia ermetica, cioè di difficile comprensione e, pertanto, è possibile darne differenti interpretazioni. Per comprenderla al meglio la andremo ad analizzare verso per verso:

DESTINO = il titolo lascia intendere che la poesia in questione è di tipo religioso, il destino va inteso come fede e speranza.

Volti al travaglio = cioè scaraventati in una vita che è dolore, sofferenza, quasi una tortura. Utilizza il termine travaglio, che di solito è associato al parto materno, per mettere in evidenza il concetto del dolore fisico, e non solo quello spirituale. Il destino trascina la vita: chi accetta il destino viene guidato da esso, chi non accetta il destino viene trascinato ugualmente.

Come una qualsiasi fibra creata = siamo circondati da circostanze dolorose, cioè soffriamo perché facciamo parte di una natura dolorosa e perché siamo scossi dalle onde del destino. Utilizza il termine "fibra", come sinonimo di filo, facendo riferimento a qualsiasi formazione allungata come una sorta di filamento.

Perché ci lamentiamo noi? = il poeta si chiede "perché ci lamentiamo se Dio ci ha creati?": è un interrogativo angosciante perché mette in risalto le sofferenze di cui la vita ne è piena. E anche se non è possibile rispondere con esattezza alla domanda, quel punto interrogativo finale lascia una piccola speranza alla nostra vita volta alla sofferenza, che ci prende e ci spinge verso l'alto perché non siamo fatti solo per patire il dolore. Ognuno di noi dovrebbe accettare il dolore, cercare di guardare oltre, trovare un significato, una speranza, per restare attaccato alla vita. Il "noi" dona una sorta di speranza perché non si è mai soli nella sofferenza: tutti gli uomini soffrono e quindi questo dona una sorta di speranza, una sorta di unione e condivisione del dolore.



Figure retoriche

Enjambement = "qualsiasi / fibra" (vv. 2-3).

Similitudine = "volti al travaglio / come una qualsiasi / fibra" (vv. 2-3).

Anastrofe = "perché ci lamentiamo noi" (v. 4) al posto di "perché noi ci lamentiamo".
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Purgatorio Canto 9 - Parafrasi

Francesco Scaramuzza, Dante sogna di essere afferrato da un’aquila

Dante si addormenta e sogna di volare in groppa ad un'aquila fino alla sfera del fuoco, dove entrambi bruciano. Al risveglio Virgilio lo conduce alla porta del Purgatorio, dove un angelo incide con la spada sette P sulla sua fronte (simboleggianti i sette peccati capitali da cui Dante dovrà purificarsi durante il viaggio).

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 9 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

L’Aurora, compagna (concubina) del vecchio (antico) Titone
già biancheggiava all’orizzonte (balco)
lontana dalle braccia del suo dolce amico;
la sua fronte era lucente di stelle,
disposte a formare la figura del freddo animale (la costellazione dello Scorpione)
che ferisce (percuote) la gente con la sua coda;
e nel luogo dove eravamo, la notte aveva percorso
due passi di quelli con cui essa sale,
mentre si apprestava a compiere anche il terzo (e ’l terzo già chinava in giuso l’ale) (perché erano circa le nove di sera);
quando io, che avevo un corpo come Adamo,
vinto dal sonno, mi coricai (inchinai) sull’erba
là dove già stavamo seduti tutti e cinque.
Nell’ora in cui, all’approssimarsi dell’alba,
la rondinella comincia il suo lamentevole canto (lai),
forse in ricordo delle sue prime sventure,
e in cui la nostra mente, più distaccata (peregrina)
dal peso della carne e meno presa dalle preoccupazioni,
nelle sue visioni è quasi profetica (divina),
mi sembrava di vedere in sogno un’aquila (aguglia)
dalle penne d’oro librata (sospesa) nel cielo,
con le ali distese e in procinto di scendere;
e mi sembrava di essere là dove
Ganimede abbandonò i suoi compagni,
quando fu rapito (ratto) per essere condotto al concilio degli dei (sommo consistoro).
Pensavo tra me: «Forse quest’aquila colpisce (fiede)
solo (pur) qui per abitudine (uso), e forse di sdegna di prendere
prede (ne) da un altro luogo per portarle in alto fra gli artigli (in piede)».
Poi mi sembrava che, dopo aver compiuto alcuni voli concentrici (rotata),
scendesse terribile come la folgore,
e mi rapisse su fino alla sfera del fuoco.
Qui sembrava che lei e io bruciassimo,
e l’incendio sognato fu così ardente (cosse),
che necessariamente il sonno si interruppe.
Non diversamente si svegliò (si riscosse) Achille,
volgendo gli occhi aperti (svegliati) in giro
e non sapendo in che luogo si trovasse,
quando la madre (Teti) fra le sue braccia mentre dormiva,
sottraendolo alla custodia di Chirone, lo trasportò (trafuggò) nell’isola di Schiro,
da dove poi i Greci lo fecero partire (il dipartiro);
da come (che) mi destai io, non appena il sonno sparì
dal mio viso, e diventai pallido (ismorto)
come chi per lo spavento si sente gelare il sangue.
Al mio fianco c’era solo Virgilio (mio conforto),
e il sole era ormai alto da più di due ore,
e il mio sguardo si era rivolto verso il mare.
«Non avere paura (tema)» disse la mia guida;
«rassicurati, perché noi siamo a buon punto;
non diminuire (stringer) le tue forze, ma rinvigoriscile (rallarga).
Tu sei ormai arrivato al Purgatorio:
vedi laggiù il pendio (balzo) che lo circonda;
vedi l’ingresso laggiù dove il balzo sembra interrotto (digiunto).
Poco fa (Dianzi), nei primi albori che precedono il sorgere del sole,
quando la tua anima dormiva in te disteso
sui fiori che adornano la valletta laggiù,
venne una donna e disse: ‘Io sono Lucia:
permettetemi di prendere costui che dorme,
così potrò aiutarlo a continuare il suo cammino’.
Sordello e le altre nobili anime (genti forme) rimasero;
Lucia ti prese (tolse) e appena si fece giorno,
se ne venne su; e io seguii i suoi passi.
Ti depose qui, ma prima i suoi begli occhi
mi indicarono quella fessura nel balzo;
poi lei e il tuo sonno se ne andarono insieme (ad una)».
Come un uomo che si rassicura (raccerta) dopo un’incertezza,
e che trasforma il suo timore in fiducia (conforto),
dopo che gli si è svelata la vera realtà,
così mi trasformai io; e non appena la mia guida
mi vide senza alcun timore (cura),
si diresse su per la roccia (balzo); e io dietro a lui verso l’alto.
O lettore, considera con attenzione come io porti più in alto
il mio soggetto, e perciò non meravigliarti
se io lo rafforzo (rincalzo) con più elevato stile.
Noi ci avvicinammo (appressammo) e ci trovammo in un luogo tale che,
dove prima mi pareva di vedere una spaccatura (rotto),
proprio come una fenditura (fesso) che divide un muro,
vidi una porta, e sotto di essa tre gradini
di colore diverso per raggiungerla
e un portinaio che per il momento non pronunciava parola (motto).
E quando fissai con attenzione (più e più) l’occhio su lui (v’),
lo vidi sedere sul gradino più alto (sovrano),
così splendente in volto che non riuscii a guardarlo (soffersi);
e teneva in mano una spada sguainata (nuda),
che rimandava a noi i raggi del suo splendore
così che spesso tentavo invano di volgere lo sguardo a lui.
«Dite, dal luogo dove siete (costinci): che cosa volete?»
egli cominciò a dire: «dov’è la guida (scorta)?
Badate che la vostra salita non vi rechi danno (nòi)».
«Una donna venuta dal cielo, esperta (accorta) di queste cose»,
gli rispose il mio maestro, «proprio poco fa ci disse:
‘Andate là: questa è la porta’».
«Ed ella faccia progredire (avanzi) i vostri passi nella via del bene»,
riprese il cortese portinaio:
«Venite dunque davanti ai nostri gradini».
Ci portammo là; e il primo scalino (scaglion primaio)
era di marmo bianco così nitido (pulito) e lucente,
che io mi specchiai in esso come appaio (paio) in realtà.
Il secondo era scuro più del color perso (un colore formato dalle tinte di porpora e di nero),
fatto di una pietra poco compatta ruvida e arida,
incrinata sia per lungo che per traverso.
Il terzo, che si posa con la sua massa compatta (s’ammassiccia)
sopra il secondo, mi sembrava porfido,
di un rosso così acceso come il sangue che sprizza (spiccia) fuori da una vena.
Sopra questo gradino teneva entrambi i piedi l’angelo di Dio,
il quale sedeva sulla soglia della porta,
che mi sembrava dura come il diamante.
La mia guida trasse su per i tre gradini (gradi) me,
che lo seguivo di buona voglia, dicendo:
«Chiedi con umiltà, che apra la serratura della porta (serrame)».
Devotamente mi gettai ai piedi dell’angelo;
gli chiesi misericordia e che mi aprisse la porta;
ma prima mi battei tre volte il petto.
Con la punta della spada mi incise
sulla fronte sette P e disse: «Quando sarai dentro,
fa’ in modo di lavarti queste ferite».
La cenere o la terra che si scava (si cavi) da un terreno arido (secca)
sarebbe (fora) di un colore simile al vestito dell’angelo;
e da sotto a quella tonaca tirò fuori due chiavi.
Una era d’oro e l’altra d’argento;
prima con la bianca e poi con la gialla agì (fece) sulla porta,
per aprirla, in modo da accontentarmi.
«Ogni volta che una di queste chiavi sbaglia (falla),
in quanto non si gira nel senso giusto nella toppa»
ci disse l’angelo, «questo varco (calla) non si apre.
Una è più preziosa (cara); ma l’altra
ha bisogno di molta esperienza e intelligenza (d’arte e d’ingegno)
prima che possa aprire, perché essa è quella che scioglie (digroppa) il nodo (dei peccati).
Le ho avute da san Pietro; e mi disse che mi sbagliassi
piuttosto nell’aprirla che nel tenerla chiusa,
purché la gente si inginocchi ai miei piedi».
Poi spinse il battente della porta sacra,
dicendo: «Entrate; ma vi avverto (facciovi accorti)
che chi si guarda (si guata) indietro deve tornare fuori».
E quando i battenti (spigoli) di quella porta (regge) sacra,
che sono di metallo sonante e robusto,
girarono (fuor … distorti) sui cardini,
non stridette (rugghiò) così, né si mostrò così dura (acra)
la rupe Tarpea, quando fu estromesso il valoroso Metello,
che la custodiva, per cui poi rimase impoverita (macra).
Mi rivolsi attento al primo forte rumore (tuono)
e mi sembrò di udire cantato da voci mescolate
a una dolce musica il ‘Te Deum laudamus’.
Ciò che io udivo mi riproduceva fedelmente (a punto)
la stessa impressione (imagine) che di solito si riceve (qual prender si suole)
quando si assiste a un canto accompagnato dagli organi,
per cui le parole ora si comprendono, ora no.
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Purgatorio Canto 8 - Parafrasi

Il serpente, illustrazione di Gustave Doré

Scende la sera nella valletta, un'anima intona il Salmo liturgico di compieta "Te lucis ante" cui rispondono devotamente tutte le altre. Scendono dal cielo due angeli "verdi come fogliette pur mo nate" che dovranno scacciare il serpente tentatore, poi Dante, Sordello e Virgilio si inoltrano nella valle.
Qui i nobili che si presentano sono ancora memori della vita breve: Nino di Gallura rimprovera la moglie Beatrice d'Este di aver smesso presto le bende vedovili per sposare Giangaleazzo Visconti di Milano. Corrado Malaspina predice a Dante l'esilio e questi loda il "pregio della borsa e della spada" (quindi tutto mondano) di quella stirpe nobiliare potente in Lunigiana.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 8 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Era ormai l’ora in cui il ricordo fa rivolgere (volge) il pensiero
dei naviganti al giorno in cui dissero
addio ai loro cari e intenerisce il loro cuore;
e in cui fa soffrire d’amore (d’amore punge) colui che da poco s’è messo in viaggio (novo peregrin),
non appena egli sente il suono lontano di una campana (squilla)
che sembra piangere il giorno che finisce;
quando io cominciai a non udire più (render vano l’udire)
e cominciai a fissare una delle anime che, sorta in piedi (surta),
chiedeva con un cenno della mano di essere ascoltata.
Essa congiunse e sollevò le due mani (palme),
guardando intensamente (ficcando li occhi) verso l’oriente,
come se dicesse a Dio: «Non m’importa (calme) d’altro».
Poi dalla bocca le uscì (uscio) la preghiera ‘Te lucis ante’,
con tale devozione e con note così armoniose,
che mi fece andare in estasi (uscir di mente);
e le altre anime poi dolcemente e devotamente
la seguirono (seguitar lei) nel canto per tutto il resto dell’inno,
con gli occhi sempre fissi alle sfere celesti (superne rote).
Aguzza qui, lettore, la vista con attenzione (ben) per scorgere la verità,
perché il velo (allegorico) è ora così trasparente (ben tanto sottile),
che certamente sarebbe molto facile (leggero) attraversarlo e superarlo.
Io vidi quella schiera (essercito) di anime nobili (gentile)
guardare poi verso l’alto (sùe),
quasi in attesa, pallida e umile;
e vidi apparire dall’alto e scendere giù
due angeli con due spade infuocate (affocate),
tronche e prive delle loro punte.
Essi indossavano vesti di un colore verde simile
a quello delle foglioline appena (pur mo) spuntate,
che ondeggiavano dietro di loro, mosse e agitate dal vento (ventilate) delle verdi ali.
Uno di loro venne a collocarsi un poco sopra di noi
e l’altro scese sul fianco (sponda) opposto della valletta,
così che le anime (gente) rimasero (si contenne) in mezzo.
Io vedevo distintamente (discernëa) in loro i biondi capelli;
ma la vista si smarriva nel (fulgore del) volto,
come una facoltà (virtù) sopraffatta da un’immagine troppo forte (ch’a troppo si confonda).
Disse Sordello: «Vengono entrambi dal grembo di Maria (dall’Empireo),
a difesa della valle,
per il serpente che verrà tra poco (vie via)».
Per cui io, che non sapevo per quale strada (calle) (sarebbe giunto),
mi guardai intorno e, freddo per la paura,
mi strinsi alle spalle fidate di Virgilio.
E anche Sordello (disse): «Ora scendiamo ormai nella valle (avvalliamo),
fra le grandi anime, e parleremo a esse:
a loro sarà (fia) molto gradito (grazïoso) vedervi».
Io credo di essere sceso solo di tre passi
e mi trovai di sotto, e vidi un’anima che fissava
solo (pur) me, come se volesse riconoscermi.
Era già il momento in cui l’aria diventava scura (l’aere s’annerava),
ma non tanto da impedire di vedere (dichiarisse), per la breve distanza fra i suoi occhi e i miei,
ciò che prima era precluso alla vista (pria serrava).
Egli si mosse (si fece) verso di me e io verso di lui:
o nobile giudice Nino, quanto fui lieto di vedere
che non eri fra i dannati (rei)!
Nessun saluto cortese (bel) rimase inespresso (si tacque) fra noi;
poi domandò: «Da quanto sei giunto sulla spiaggia del Purgatorio
attraverso le lontane acque?».
«Oh!» risposi «sono giunto stamane, attraverso i luoghi
di dolore e sono ancora nella vita mortale (prima vita),
sebbene faccia questo viaggio per guadagnare la vita immortale (altra)».
Non appena ebbero udito la mia risposta,
Sordello e Nino (elli) si trassero indietro
come persone improvvisamente confuse per la meraviglia.
Il primo (Sordello) si rivolse a Virgilio e Nino s’indirizzò
a un’anima che stava seduta, gridando: «Alzati, Corrado,
vieni a vedere quale prodigio Dio ha voluto fare per mezzo della sua grazia».
Poi, rivolto a me: «In nome di quella eccezionale gratitudine (singular grado)
che devi a Dio, che nasconde la ragione prima del suo operare (lo suo primo perché),
così che non vi è passaggio per comprenderla (non lì è guado),
quando sarai al di là delle grandi onde (sulla terra),
raccomanda alla mia Giovanna di rivolgersi per me al cielo,
che esaudisce le preghiere degli innocenti.
Non credo che sua madre mi ami ancora,
da quando (poscia) ha abbandonato le bende vedovili (le bianche bende),
che dovrà però, infelice, un giorno rimpiangere (ancora brami).
Dal suo esempio (Per lei) si comprende molto facilmente (assai di lieve)
quanto duri poco in una donna la fiamma d’amore,
se non è alimentata dalla vista (occhio) o dalla vicinanza (tatto).
La vipera che i Milanesi pongono sullo stemma (accampa)
non onorerà tanto la sua tomba,
così come avrebbe fatto il gallo dei Signori di Gallura».
Così diceva, portando impresso (segnato de la stampa)
nel volto quel giusto (dritto) fervore, che accende (avvampa)
l’animo nobile senza oltrepassare la misura.
I miei occhi avidi di vedere erano rivolti insistentemente (andavan pur) al cielo,
proprio nella direzione in cui le stelle girano più lentamente,
così come una ruota gira più lentamente vicino all’asse (stelo).
E la mia guida: «Figliuolo, che guardi lassù?».
E io: «Guardo quelle tre piccole fiaccole (facelle)
da cui è illuminato tutto questo polo antartico (di qua)».
Perciò egli replicò: «Le quattro stelle luminose che vedevi stamattina,
sono calate dall’altra parte della montagna (son di là basse),
e queste sono salite al loro posto».
Mentre Virgilio parlava, ecco che Sordello lo fece rivolgere verso di sé
dicendo: «Vedi là il nostro avversario»;
e puntò il dito perché guardasse in quella direzione.
Da quel lato dove la valletta (picciola vallea)
è aperta senza riparo, stava un serpente,
forse come quello che diede a Eva il frutto causa di tanto male (amaro).
Il malvagio rettile (mala striscia) strisciava fra l’erba e i fiori,
volgendo di quando in quando la testa,
leccandosi il dorso come una bestia che si liscia.
Io non vidi, e perciò non posso descriverlo,
come si mossero gli uccelli divini (astor celestïali);
ma li vidi ormai entrambi in movimento (mosso).
Il serpente, sentendo il rumore delle verdi ali che attraversavano (fender) l’aria,
fuggì e gli angeli tornarono indietro (dier volta),
volando insieme (iguali) verso l’alto delle loro sedi (suso a le poste).
Lo spirito, che si era avvicinato (raccolta) al giudice Nino
quando costui l’aveva chiamato, non cessò mai (punto) di guardarmi,
per tutta la durata di quell’assalto.
«Possa la grazia divina (lucerna) che ti guida
verso l’alto trovare nella tua volontà tanta perseveranza (cera),
quanta ne occorre per giungere fino alla sommità del monte smaltato di fiori (il Paradiso terrestre)»
cominciò a dire «se sai notizie vere
della Val di Magra e dei paesi vicini,
riferiscilo a me, che in vita (già) fui potente in quel luogo.
Ebbi nome Corrado Malaspina;
non sono il vecchio (l’antico), ma un suo discendente;
portai ai miei familiari quell’amore che qui si purifica (si raffina)».
«Oh!» dissi io a lui «non sono
mai stato nei vostri paesi; ma c’è un luogo
in tutta l’Europa abitata in cui essi non siano noti?
La fama che dà onore alla vostra casata,
celebra a gran voce (grida) i signori e la regione (contrada),
tanto che è nota (ne sa) anche a chi non vi è ancora stato;
e vi giuro – così possa giungere alla sommità del monte (sopra) –
che la vostra onorata famiglia non cessa di fregiarsi (si sfregia)
del merito (del pregio) della liberalità (borsa) e della virtù militare (spada).
L’uso alla virtù e la disposizione naturale (natura) la privilegiano tanto che,
benché la guida rea (capo reo) travii (torca) il mondo,
essa sola va per la giusta strada e disprezza la via malvagia».
Ed egli: «Ora va’; il sole non tornerà a tramontare sette volte (non passeranno sette anni)
in quella parte del cielo che l’Ariete (Montone)
copre e tiene tra la forca delle sue quattro zampe,
che questa gentile opinione ti sarà fissata (chiavata)
nella mente con argomenti (chiovi) più convincenti
delle parole (sermone) altrui, a meno che
non si arresti il corso del giudizio divino».
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Malinconia - Ungaretti: analisi e commento


La poesia "Malinconia" è stata scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti, porta l'indicazione "Quota Centoquarantuno, il 10 luglio 1916" e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Il porto sepolto.



Indice




Testo

Calante malinconia lungo il corpo avvinto
al suo destino

Calante notturno abbandono
di corpi a pien’anima presi
nel silenzio vasto
che gli occhi non guardano
ma un’apprensione

Abbandono dolce di corpi
pesanti d’amaro
labbra rapprese
in tornitura di labbra lontane
voluttà crudele di corpi estinti
in voglie inappagabili

Mondo

Attonimento
in una gita folle
di pupille amorose

In una gita che se ne va in fumo
col sonno
e se incontra la morte
è il dormire più vero



Analisi del testo

Per comprendere al meglio questa poesia andremo ad analizzarla verso per verso.

Calante malinconia lungo il corpo avvinto al suo destino = la malinconia segue un movimento discendente che attraversa il corpo, che è avvinto, cioè legato al destino ma anche legato al desiderio del corpo stesso.

Calante notturno abbandono di corpi a pien’anima presi = viene ripetuto il termine "calante". Se prima era la malinconia a discendere, questa volta è il movimento della notte sui corpi di due innamorati che sono pieni d'anima, cioè pieni d'amore e probabilmente descritti dopo un rapporto amoroso.

Nel silenzio vasto che gli occhi non guardano ma un’apprensione = in un clima di silenzio, i due innamorati usano gli occhi non tanto per guardare, che è inutile, ma per percepire i battiti del cuore, perché l'amore non può essere visto, ma può essere sentito ascoltando le pulsazioni.

Abbandono dolce di corpi pesanti d’amaro = viene ripetuto il termine "abbandono", che è dolce (l'abbandono di corpi) ma allo stesso tempo pesante e amaro.

Labbra rapprese
= labbra coagulate o condensate.

In tornitura di labbra lontane = sta a indicare l'illusione di due labbra che si uniscono, in quanto si fa riferimento a una scena del passato e pertanto vi è questo contrasto tra l'allontanamento di due labbra e le labbra coagulate.

Voluttà crudele di corpi estinti in voglie inappagabili
= piacere intenso e allo stesso tempo crudele per i corpi che si estinguono dinnanzi a voglie che non possono essere soddisfatte.

Mondo = la parola occupa un intero verso ed è stata isolata per metterla in evidenza, in quanto il mondo viene visto con occhi desiderosi.

Attonimento in una gita folle di pupille amorose = si rimane sbalorditi e con un senso di smarrimento di fronte a un movimento disordinato e caotico che segue le impressioni del desiderio (Gita folle). Le "pupille amorose" sono un richiamo ai versi precedenti dove l'occhio non viene usato per guardare ma per sentire l'amore, si tratta di uno sguardo d'amore.

In una gita che se ne va in fumo col sonno
= come un desiderio che non può più essere esaudito, che va in fumo non appena si cade nel sonno.

E se incontra la morte è il dormire più vero
= e in questa gita, se dovesse incontrare la morte incontrerebbe il sonno definitivo.



Commento

Sul corpo, abbandonato al suo destino di stanchezza, scende una malinconia comune a molti altri esseri umani, che però è invisibile ai nostri occhi. E quando i corpi si abbandonano al sonno, quasi dolce è l'oblio (della morte) in confronto alle amarezze e alle avversità del vivere. Vivere è definito come un continuo agitarsi, una condizione quasi crudele, un viaggio (gita) folle nel mondo. E in questa "gita", se si arriva ad incontrare la morte nel sonno, si ottiene il sonno più vero, perché non ci si può più risvegliare da esso.



Figure retoriche

Anafora = "calante" (v.1 e v.2)

Ossimoro = dolce (v. 8) e amaro (v. 9). Entrambi gli aggettivi relativo al gusto sono associati al sostantivo corpi.
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Purgatorio Canto 7 - Parafrasi

Dante incontra Rodolfo I d'Asburgo, illustrazione di Gustave Doré.

Sordello, mentre si avvicinano, dice che già prima del tramonto indicherà i personaggi che stanno in questo posto. Così dicendo, passa in rassegna i principi negligenti: Rodolfo, Ottocaro, che si nutrì di lussuria e ozio, Filippo III e Enrico I.
L'elenco continua con il robusto Pietro III d'Aragona e con Carlo I d'Angiò. Ma le sue virtù, purtroppo, non si trasmisero agli altri eredi. Esse sarebbero state ben tramandate se fosse salito al trono il giovanetto, che ora risiede accanto a lui. Da questo episodio Dante trae spunto per dimostrare che la virtù non si eredita da padri, ma discende da Dio, come una grazia. Sordello indica ancora Arrigo III d'Inghilterra, seduto in disparte, e poi posto in luogo più basso, Guglielmo VII, alla cui morte seguì una dolorosa guerra nelle regioni del suo marchesato (Monteferrato e Canavarese).

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 7 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Sordello, dopo avere ripetuto più volte (iterate)
i suoi festosi e cortesi gesti di accoglienza,
si tirò indietro e disse: «Voi, chi siete?».
«Il mio corpo fu sepolto per ordine di Ottaviano
prima della venuta di Cristo,
che consentì alle anime degne di accedere a questo monte.
Io sono Virgilio; e ho perso il Paradiso per nessuna altra colpa (rio),
che per non avere avuto la fede».
Così rispose allora la mia guida.
Come diventa chi vede una cosa improvvisa (sùbita),
per cui si stupisce al punto
da crederci e non crederci, dicendo «È vera ... non è vera»,
così sembrò Sordello; poi abbassò gli occhi,
e rispettosamente si avvicinò ancora a Virgilio,
abbracciandolo nel punto in cui l’inferiore abbraccia la persona più importante.
«O gloria degli Italiani», disse, «per merito
del quale la nostra lingua mostrò tutta la sua capacità artistica (ciò che potea),
o eterno onore (pregio) del territorio in cui anch’io nacqui,
quale mio merito o quale grazia ti mostra a me?
Se io sono degno di ascoltare le tue parole,
dimmi se vieni dall’Inferno e da quale cerchio (chiostra)».
«Io sono venuto qua attraversando tutti i cerchi dell’Inferno,
il regno del dolore (dolente)», gli rispose Virgilio; «sono stato indotto
a venire da una potenza (virtù) celeste, ed essa mi accompagna (con lei vegno).
Non per fare, ma per non fare ho perduto
la possibilità di vedere Dio, l’alto Sole che tu desideri (disiri) vedere,
e che fu conosciuto da me troppo tardi.
Nell’Inferno esiste un luogo non rattristato da sofferenze fisiche (martìri),
ma solo da tenebre, dove i lamenti
non risuonano come gemiti di dolore (guai), ma sono sospiri.
Io sto in quel luogo in compagnia dei bambini innocenti,
che furono presi dal morso della morte prima
che fossero purificati (essenti) dal peccato originale (l’umana colpa);
lì sto con le anime di coloro che non si rivestirono delle tre virtù teologali (sante virtù)
e conducendo una vita virtuosa (sanza vizio)
conobbero e praticarono tutte le altre.
Ma se tu sai e puoi, dacci qualche indicazione,
che ci consenta di arrivare più velocemente (più tosto)
là dove il Purgatorio ha il suo vero (dritto) inizio».
Rispose: «A noi non è fissato (c’è posto) un luogo determinato;
mi è consentito muovermi verso l’alto e intorno;
ti sto al fianco (mi t’accosto) come guida, per quanto posso andare.
Ma vedi come ormai il giorno si avvia al tramonto (dichina),
e di notte non si può salire;
perciò è opportuno cercare un luogo piacevole per fermarsi (di bel soggiorno).
Da questo lato, a destra, ci sono anime appartate (remote);
se me lo permetti, ti condurrò (merrò) da esse,
e potrai conoscerle non senza gioia da parte tua».
«Com’è possibile?» rispose Virgilio. «Se uno volesse
salire di notte, sarebbe (fora) ostacolato
da qualcuno (d’altrui), o non salirebbe (sarria)?».
E il cortese Sordello tracciò col dito un segno sul suolo,
dicendo: «Vedi? Dopo il tramonto del sole,
non riusciresti a varcare neppure questa linea:
e non per altra causa che desse impedimento (briga)
a salire (irsuso), se non l’oscurità della notte;
questa togliendo la possibilità (nonpoder) di salire, ne ostacola (intriga) anche il desiderio.
Con la tenebra (con lei) sarebbe tuttavia possibile tornare in basso
e camminare vagando attorno al monte,
finché l’orizzonte nasconde (tien chiuso) la luce del giorno».
Allora il mio signore, come chi si meraviglia (quasi ammirando),
disse: «Guidaci (Menane) dunque là dove dici
che il soggiorno (dimorando) può essere motivo di diletto».
Ci eravamo appena allontanati da lì (lici),
quando mi accorsi che il monte era incavato (scemo),
come i valloni incavano (scemano) i fianchi delle montagne sulla terra (quici).
«Là», disse quell’anima (Sordello), «noi ora ci dirigeremo,
dove il fianco della montagna (costa) si raccoglie (face grembo);
e lì attenderemo il nuovo giorno».
C’era un sentiero trasversale (schembo) un po’ in salita e un po’ pianeggiante,
che ci condusse a un lato dell’avvallamento (lacca),
dove l’orlo di esso digrada (muore) oltre la metà della costa
L’oro e l’argento puro, la cocciniglia (cocco) e la biacca,
l’azzurro cupo, il legno luminoso e chiaro (lucido e sereno),
il verde fresco dello smeraldo appena spezzato (in l’ora che si fiacca),
se fossero messi tutti dentro quella valle (seno),
ognuno di essi sarebbe sconfitto dal colore dell’erba e dei fiori,
come una cosa minore (il meno) è vinta da quella che è superiore (suo maggiore) a lei.
Ma la natura in quel luogo non aveva soltanto (pur) dipinto,
ma dalla soavità di mille odori,
ne creava uno sconosciuto (incognito) e indistinto.
Vidi che nella valle, sull’erba verde e sui fiori,
sedevano anime che cantavano ‘Salve, Regina’,
e a causa dell’avvallamento (per la valle) non si vedevano dall’esterno (di fuori).
«Prima che il poco sole che ancora rimane, tramonti (s’annidi)»,
disse Sordello che ci aveva guidati lì (vòlti),
«non chiedetemi di condurvi fra queste anime.
Da questa altura (balzo) voi potrete distinguere i volti
e gli atteggiamenti di tutte quante le anime,
meglio che se entraste laggiù nella valle (lama) mischiati a esse.
Colui che siede più in alto e che con l’aspetto manifesta (fa sembianti)
di aver trascurato (negletto) di compiere il suo dovere,
e non unisce (move) la sua voce al canto delle altre anime,
fu l’imperatore Rodolfo, che avrebbe potuto
guarire le ferite che hanno distrutto (morta) l’Italia,
tanto che essa sarà ricostruita (si ricrea) tardi e per merito di un altro.
L’altro che col suo atteggiamento (vista) sembra confortarlo,
regnò (resse) sulla terra da cui nascono le acque
che il fiume Moldava (Molta) riversa nell’Elba (Albia), e l’Elba porta nel mare:
si chiamò Ottocaro (Ottacchero) e anche in fasce
fu assai più saggio di suo figlio Venceslao adulto (barbuto),
che si nutre (pasce) di lussuria e di ozio.
E quello dal piccolo naso (il re di Francia Filippo III) che si vede impegnato a parlare (stretto a consiglio)
con l’altro che ha un’apparenza così benevola,
morì mentre fuggiva e disonorava (disfiorava) il giglio di Francia:
guardate là come si batte il petto!
Osservate l’altro che, sospirando,
ha appoggiato la guancia al palmo della mano.
Essi sono padre (Filippo III) e suocero (Enrico di Navarra) del re che è la rovina della Francia (Filippo il Bello):
conoscono la sua vita oziosa e corrotta (lorda),
e di qui (quindi) deriva il dolore che li strazia (li lancia) in tal modo.
Quello (Pietro III d’Aragona) che sembra così robusto (membruto) e che unisce
il suo canto a quello dal grande naso (Carlo I d’Angiò),
fu un cavaliere pieno d’ogni virtù (portò cinta la corda);
e se dopo di lui fosse rimasto sul trono
il giovinetto (Alfonso III d’Aragona) che siede alle sue spalle,
la virtù si sarebbe certo trasmessa di padre in figlio (di vaso in vaso),
il che non si può invece dire degli altri eredi (rede);
Giacomo e Federico hanno ereditato i reami;
ma né uno né l’altro posseggono il meglio (la saggezza e il valore del padre) dell’eredità (retaggio).
Raramente si trasmette la virtù umana (probitate)
tramite la discendenza (per li rami); e Colui che la assegna
vuole così, perché si invochi da Lui.
Le mie parole si riferiscono anche a quello dal grande naso (Carlo d’Angiò),
non meno che all’altro, Pietro d’Aragona, che canta con lui,
i cui successori già fanno soffrire i reami di Napoli e di Provenza.
Carlo II (la pianta) è di tanto inferiore al padre Carlo I (seme),
quanto ha maggiore ragione di vantarsi del proprio marito (Pietro d’Aragona)
Costanza, che non Beatrice e Margherita (prima e seconda moglie) del loro (Carlo d’Angiò).
Osservate il re dalla vita semplice
Arrigo d’Inghilterra, che siede là in disparte:
questi ha migliore fortuna (uscita) nei suoi discendenti (ne’ rami suoi).
Colui che sta seduto per terra (s’atterra) fra costoro,
più in basso, e guarda verso l’alto (in suso) è il marchese Guglielmo VII di Monferrato,
per la cui morte Alessandria e la sua guerra
hanno provocato gravi lutti (fa pianger) nel Monferrato e nel Canavese».
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Tappeto - Ungaretti: analisi e commento


La poesia "Tappeto" è stata scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti nel 1914 e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Ultime.



Indice




Testo

Ogni colore si espande e si adagia
negli altri colori

Per essere più solo se lo guardi.



Analisi del testo e commento

Per capire di cosa parla la poesia occorre conoscere la definizione di "tappeto": esso è un manufatto, perlopiù rettangolare, in tessuto di fibre naturali o artificiali, con disegni decorativi.

Il poeta ci vuole dire che ci sono due modi di osservare un tappeto: con superficialità e con attenzione.
  1. Il tappeto – visto come un unico elemento – è un drappo di tessuto, formato da tanti colori che si "espandano e si adagiano" per creare un disegno, proprio come le singole persone si uniscono per formare una comunità.
  2. Sebbene il tappetto sia un singolo oggetto, andandolo a osservare da vicino, è possibile notare che è formato da colori isolati e ben distinti; così è per il singolo individuo, essere unico e irripetibile.

Da ciò si può dedurre che il tappeto di questa poesia esprime la condizione dell'io nella sua relazione con gli altri.

Inoltre si possono dare due interpretazioni diverse e addirittura opposte tra loro. Tutto quello che si deve fare è leggere i primi due versi normalmente e, una volta arrivati al terzo verso, bisognerebbe spostare la virgola di una sola parola (una vera e propria magia poetica):

"Per essere più solo | se lo guardi"
La sua condizione di essere unico e irripetibile lo rende inevitabilmente solo. Per quanto viva assieme ad altri individui (i fili del tappeto), se preso singolarmente, l’uomo sarà sempre in una condizione di solitudine. Questa prima interpretazione ha quindi un risvolto triste e malinconico.

"Per essere più | solo se lo guardi"
Come già detto in precedenza, la seconda interpretazione è resa possibile spostando semplicemente la virgola di una sola parola (di un posto). Il significato che ne viene fuori è totalmente differente: non è affatto triste e malinconico, anzi, il singolo filo del tappeto, isolato dagli altri per essere osservato più attentamente, apparirà ancora più bello e luminoso. E ciò avviene anche per l'uomo.
Solo ponendo l'attenzione sul singolo individuo si riescono a cogliere tutte le sue particolarità e singolarità che lo rendono speciale; lo rendono un "più" che riesce ad emergere e a brillare sopra a tutto il resto.



Figure retoriche

Paronomasia = "colore" e "colori" (vv. 1-2).

Antitesi = "altri" e "solo" (vv. 2-3).
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Notte di maggio - Ungaretti: analisi e commento


La poesia "Notte di maggio" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Ultime.



Indice




Testo

Il cielo pone in capo
ai minareti
ghirlande di lumini.



Analisi del testo e commento

Questa poesia è stata scritta poco prima della guerra (come Fase d'Oriente, Tramonto, Fase, Silenzio) e, come affermava il poeta, erano brevi e allo stesso tempo così profonde perché "alcuni vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte, un gruppo fulmineo d’immagini, mi bastavano a evocare il paesaggio sorgente d’improvviso ad incontrarne tanti altri nella memoria". In questa Notte di maggio, ad esempio, gli bastava osservare le luci parigine nel buio per ricreare il miraggio della sua terra natia: Alessandria d'Egitto. Ad Ungaretti sono bastati 3 versi per esaltare la fede e la speranza.


Notte di maggio = maggio potrebbe essere il mese in cui ha scritto questa poesia oppure il mese che egli ricorda. Di certo è che il paesaggio che egli rievoca è la visione notturna di Alessandria d'Egitto vista dall'alto.

Il cielo pone in capo = sta a significare che il cielo, come fosse una figura umana, pone delle ghirlande di lumini sopra i minareti.

Minareti = sono le torri presenti in quasi tutte le moschee (vedi foto in alto) e, come il campanile cristiano, vengono usate per richiamare alla preghiera i devoti di Allāh.

Ghirlande di lumini = cioè stelle che si dispongono a ghirlanda quasi ad omaggiare quei luoghi di culto che si protendono verso il cielo fondendosi con esso.



Figure retoriche

Personificazione = "il cielo" (v.1). Perché gli viene associato il verbo "pone".

Iperbato = (vv. 1-3). Così sarebbe dovuta essere la frase senza spezzettatura "Il cielo pone ghirlande di lumini in capo ai minareti".
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Ultimi cori per la Terra Promessa - Ungaretti: analisi e commento


La poesia "Ultimi cori per la terra promessa" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1960 e fa parte della raccolta Il taccuino del vecchio.



Indice




Testo

Agglutinati all'oggi
I giorni del passato
E gli altri che verranno,
Per anni e lungo secoli
Ogni mattino sorpresa

Nel sapere che ancora siamo in vita,
Che scorre sempre come sempre il vivere,
Dono e pena inattesi
Nel turbinio continuo
Dei vani mutamenti.

Tale per nostra sorte
Il viaggio che proseguo,
In un battibaleno
Esumando, inventando
Da capo a fondo il tempo,
Profugo come gli altri
Che furono, che sono, che saranno.

Se nell’incastro d’un giorno nei giorni
Ancora intento mi rinvengo a cogliermi
E scelgo quel momento,
Mi tornerà nell’animo per sempre.

La persona, l’oggetto o la vicenda
O gl’inconsueti luoghi o i non insoliti
Che mossero il delirio, o quell’angoscia,
O il fatuo rapimento
Od un affetto saldo,
Sono, immutabili, me divenuti.

Ma alla mia vita, ad altro non più dedita
Che ad impaurirsi cresca,
Aumentandone il vuoto, ressa di ombre
Rimaste a darle estremi
Desideri di palpito,
Accadrà di vedere
Espandersi il deserto
Sino a farle mancare
Anche la carità feroce del ricordo?

Ma alla mia vita, ad altro non più dedita
Che ad impaurirsi cresca,
Aumentandone il vuoto, ressa di ombre
Rimaste a darle estremi
desideri do palpito,
Accadrà di vedere
Espandersi il deserto
Sino a farle mancare
Anche la carità feroce del ricordo?

Quando un giorno ti lascia,
Pensi all’altro che spunta.

È sempre pieno di promesse il nascere
Sebbene sia straziante
E l’esperienza di ogni giorno insegni
Che nel legarsi, sciogliersi e durare
Non sono i giorni se non vago fumo.

Verso meta si fugge:
Chi la conoscerà?
Non d'Itaca si sogna

Smarriti in vario mare,
Ma va la mira al Sinai sopra sabbie
Che novera monotone giornate.


Si percorre il deserto con residui
Di qualche immagine di prima in mente,

Della Terra Promessa
Nient'altro un vivo sa.

All'infinito se durasse il viaggio,
Non durerebbe un attimo, e la morte
E' già qui, poco prima.

Un attimo interrotto,
Oltre non dura un vivere terreno:

Se s'interrompe sulla cima a un Sinai,
La legge a chi rimane si rinnova,
Riprende a incrudelire l'illusione.

Se una tua mano schiva la sventura,
Con l'altra mano scopri
Che non è il tutto se non di macerie.

E'sopravvivere alla morte, vivere?

Si oppone alla tua sorte una tua mano,

Ma l'altra, vedi, subito t'accerta
Che solo puoi afferrare
Bricioli di ricordi.

Sovente mi domando
Come eri ed ero prima.

Vagammo forse vittime del sonno?

Gli atti nostri eseguiti
Furono da sonnambuli, in quei tempi?

Siamo lontani, in quell'alone d'echi,
E mentre in me riemergi, nel brusio
Mi ascolto che da un sonno ti sollevi
Che ci previde a lungo.

Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
E' sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S'inquadra alla finestra
Di quella mia dimora d'una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi.

Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
Segno sarà che niuna cosa muore
Se ne ritorna sempre l'apparenza?

O saprò finalmente che la morte
Regno non ha che sopra l'apparenza?

Le ansie che mi hai nascoste dentro gli occhi,
Per cui non vedo che irrequiete muoversi
Nel tuo notturno riposare, sola
Le tue memori membra,
Tenebra aggiungono al mio buio solito,
Mi fanno più non essere che notte,
Nell’urlo muto,notte.

E'nebbia, acceca vaga, la tua assenza,
E'speranza che logora speranza,

Da te lontano più non odo ai rami
I bisbigli che prodigano foglie
con ugole novizie
Quando primaverili arsure provochi
nelle mie fibre squallide.

L'Ovest all'incupita spalla sente
Macchie di sangue che si fanno larghe,
Che, dal fondo di notti di memoria,
Recuperate, in vuoto
S'isoleranno presto,
Sole sanguineranno.

Rosa segreta, sbocci sugli abissi
Solo ch'io trasalisca rammentando
Come improvvisa odori

Mentre si alza il lamento.
L'evocato miracolo mi fonde
La notte allora nella notte dove
Per smarrirti e riprenderti inseguivi,
Da libertà di pili
In pili fatti roventi,
L'abbaglio e 1'addentare.

Somiglia a luce in crescita,
Od al colmo, l'amore..

Se solo d'un momento
Essa dal Sud si parte,
Già puoi chiamarla morte.

Se voluttà li cinge,
In cerca disperandosi di chiaro
Egli in nube la vede
Che insaziabile taglia
A accavallarsi d'uragani,. freni.

Da quella stella all'altra
Si carcera la notte
In turbinante vuota dismisura,

Da quella solitudine di stella
A quella solitudine di stella.

Rilucere inveduto d'abbagliati
Spazi ove immemorabile
Vita passano gli astri
Dal peso pazzi della solitudine.

Per sopportare il chiaro, la sua sferza,
Se il chiaro apparirà,

Per sopportare il chiaro, per fissarlo
Senza battere ciglio,
Al patire ti addestro,

Espio la tua colpa,

Per sopportare il chiaro
La sferza gli contrasto
E ne traggo presagio che, terribile,
La nostra diverrà sublime gioia!


Veglia e sonno finiscano, si assenti
Dalla mia carne stanca,
D'un tuo ristoro, senza tregua spasimo.

Se fossi d'ore ancora un'altra volta ignaro,
Forse succederà che di quel fremito
Rifrema che in un lampo ti faceva
Felice, priva d'anima?

Darsi potrà che torni
Senza malizia, bimbo?

Con occhi che non vedano
Altro se non, nel mentre a luce guizza,
Casta l'irrequietezza della fonte?

E'senza fiato, sera, irrespirabile,
Se voi, miei morti, e i pochi vivi che amo,
Non mi venite in mente
Bene a portarmi quando
Per solitudine, capisco, a sera.

In questo secolo della pazienza
E di fretta angosciosa,
Al cielo volto, che" si doppia giù
E più formando guscio, ci fa minimi
In sua balia, privi d'ogni limite,
Nel volo dall'altezza
Di dodici chilometri vedere
Puoi il tempo che s'imbianca e che diventa
Una dolce mattina,
Puoi, non riferimento
Dall'attorniante spazio
Venendo a rammentarti
Che alla velocità ti catapultano
Di mille miglia all'ora,
L'irrefrenabile curiosità
E il volere fatale

Scordandoti dell'uomo
Che non saprà mai smettere di crescere
E cresce già in misura disumana,
Puoi imparare come avvenga si assenti
Uno, senza mai fretta né pazienza
Sotto veli guardando
Fino all'incendio della terra a sera.

Mi afferri nelle grinfie azzurre il nibbio
E, all'apice del sole,
Mi lasci sulla sabbia
Cadere in pasto ai corvi.

Non porterò piu sulle spalle il fango,
Mondo mi avranno il fuoco,
I rostri crocidanti,
L'azzannare afroroso di sciacalli.

Poi mostrerà il beduino,
Dalla sabbia scoprendolo
Frugando col bastone,
Un ossame bianchissimo.

Calava a Siracusa senza luna
La notte e l'acqua plumbea
E ferma nel suo fosso riappariva,

Soli andavamo dentro la rovina,

Un cordaro si mosse dal remoto.

Soffocata da rantoli scompare,
Torna, ritorna, fuori di sé torna,
E sempre l’odo più addentro di me
Farsi sempre più viva,
Chiara, affettuosa, più amata, terribile,
La tua parola spenta.

L’amore più non è quella tempesta
Che nel notturno abbaglio
Ancora mi avvinceva poco fa
Tra l’insonnia e le smanie,

Balugina da un faro
Verso cui va tranquillo
Il vecchio capitano.



Analisi del testo e commento

I frammenti sono complessivamente 27: essi rendono chiaro il percorso del pensiero e della poesia di Ungaretti. "Ultimi cori per la Terra Promessa", nasce, a detta dello stesso autore, da un breve ritorno in Egitto nel 1951 (all'età di 64 anni) insieme a Leonardo Sinisgalli e l'ispirazione gliel'ha data il paesaggio del deserto della Necropoli di Sakkarah.

Il poeta ha sempre pensato, fin dall'infanzia, al suo paese, all'Italia, come, appunto, a una "terra promessa" (come una meta irraggiungibile e come tale sarebbe dovuta rimanere). Quando si recherà in Italia ne resterà deluso e vorrebbe tornare al deserto della sua terra natia (Alessandria d'Egitto). Lo lascia intendere nel testo quando dice "ossame bianchissimo" che potrebbe essere il suo corpo defunto ricoperto dalla sabbia bianca. La Necropoli rappresenta la fine di un viaggio per il poeta (che era iniziato per la ricerca del porto sepolto), infatti le necropoli sono un luogo di morti: un agglomerato di tombe, disposte in modo disordinato nelle vicinanze dei centri antichi.

Coro 1: In questo luogo il passato e il futuro si riuniscono in un unico istante, che è il presente, perché lo spazio e il tempo sono nascosti nelle tombe millenarie ed assumono un'altra dimensioni ed altri significati.
Ungaretti, prosegue il suo pellegrinaggio che consiste in una specie di discesa agli Inferi (col suo paesaggio sotterraneo d'oltretomba), disseppellisce il tempo e lo riporta alla luce del sole (mentre prima era nell'oblio, in silenzio, ricoperto dalla povere antica); così facendo vuole ridare al tempo una nuova forma e nuovi contorni, come se lo volesse reinventare di nuovo.
Questa concentrazione del tutto nell'istante (un "battibaleno") è più evidente nel Coro 2 dove il poeta, decide di scegliere il momento in cui egli può ritornare nel suo animo e ritrovare tutte le sue cose (la persona, l'oggetto, la vicenda, i luoghi, le sensazioni e le emozioni di angoscia e affetto) immutate, cioè rimaste invariate perché è come se il tempo fosse in lui.
Detto ciò il poeta si chiede se l'espandersi del deserto (visto come un mare di sabbia) non possa ricoprire (sommergere) tutto il paesaggio e con lui anche la carità di un ricordo. Il deserto e il mare sono legati all'immagine della morte.
Continua dicendo che quando un giorno finisce bisogna pensare positivo perché ne inizierà un altro, tuttavia è straziante pensarla in questo modo in quanto l'esperienza ci insegna che il legarsi (passato), lo sciogliersi (presente) e il durare (futuro) non esistono, cioè non sono altro che fumo che si disperde nell'aria.
Nel Coro 4 parla di una meta da raggiungere e da oltrepassare, vista come termine paesaggistico e come fine o scopo del viaggio, ma è una meta che nessuno conosce. Inoltre, nomina Itaca e quindi in un certo senso accenna all'Ulisse che rinuncia al ritorno in Patria sopraffatto dal desiderio di conoscere nuove terre e nuovi popoli, ma nomina anche il Sinai, che Mosé raggiunse dopo 3 mesi di cammino.
Il destino di Ulisse (e di Ungaretti) è sul mare, egli è cresciuto lungo il mare che lo ha portato lontano dalla sabbia nativa, poi il mare lo ha ripreso e lo ha spinto, tra bonacce e tempeste, di gente in gente, di lido in lido, di ventura in ventura.
Il mare lo riporterà in patria, sulla terraferma, alla sua casa, per rimettersi, però, ancora in viaggio e navigare, camminare, approdare, tornare e attendere, ormai "vecchio", la morte che gli verrà dal mare e dal deserto.
Ogni porto, allora, anche se sepolto (proprio come una necropoli), era una promessa, un invito, una tentazione, una sfida.
Nel Cori 5 ci dice che ha "immagini di prima in mente", cioè ricordi di esperienze vissute nel deserto.
Nel Coro 6 dice che anche se il viaggio durasse all'infinito esso sarebbe in ogni caso solo un attimo perché la nostra vita terrena è breve e presto si giunge la morte.
Nel Coro 9 fa riferimento al giorno del compleanno del poeta che mette in evidenza il tempo che passa: tutti gli anni la mimosa torna a fiorire. Nell'ultimo periodo della sua vita, dopo la morte della moglie, Ungaretti si era trasferito da via Remuria a Roma, all’Eur dalla figlia. L’immagine della mimosa fiorita ogni anno e che ritorna a fiorire è manifestata già nella sua duplice diversità di presente e di passato: la mimosa che il soggetto poetico vedeva dalla finestra della casa dove aveva abitato e la mimosa che vede ora fiorire dalla finestra della casa dove abita e dunque nel confronto tra presente e passato. Nello stesso Coro dice che si sta avvicinando al silenzio (ogni parola nasce e finisce nel silenzio) che aggiunge buio alla notte: logora la speranza e crea sensazioni di vuoto. L'oblio diventa metafora della morte.
Nel Coro 27 un vecchio capitano si dirige in direzione della luce intermittente e incerta. Questa figura umana potrebbe associata allo spirito avventuriero di chi è pronto a tutte le partenze.
Questa è una poesia drammatica e cupa, ma ci sarà per il poeta, sebbene tanto in là con gli anni, ancora una stagione d'amore.



Figure retoriche

Ripetizione = da "Ma alla mia vita" (v. 28) a "la carità feroce del ricordo" (v. 45).

Epifora = "vivere" (v.7 e v.74).

Antitesi = "dono e pena" (v. 8).

Enumerazione = da "La persona, l’oggetto o la vicenda" (v. 22) a "Od un affetto saldo" (v. 26).

Antitesi = "espandersi" (v. 34) e "mancare" (v. 35).

Epifora = "notte" (v.104, 105, 140).

Epanalessi = "La notte allora nella notte dove" (v. 124).

Epifora = "quella solitudine di stella" (v.142 e v.143).

Anafora = "per sopportare il chiaro" (v.148, v. 150, v.154).
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Maggio: eventi storici, santi e ricorrenze

Maggio

Il mese di maggio è il quinto dei 12 mesi dell'anno secondo il calendario gregoriano ed è costituito da 31 giorni. Gli è stato dato tale nome perché corrisponde al mese Maius dell'antico calendario romano, che a sua volta gli era stato dato in onore della divinità latina Maia, che era la dea dell'abbondanza e della fertilità, che rappresenta la grande madre Terra.





Informazioni sul mese Maggio

Etimologia Maius
Stagione primavera
Segni zodiacali Toro (fino al giorno 20) e Gemelli (dal giorno 21)
Frase celebre «Aprile non ti scoprire, maggio adagio adagio, giugno allarga il pugno»

altri proverbi



Maggio: caratteristiche del mese

È una devozione popolare antica e molto sentita dai fedeli quella del mese di maggio dedicato tradizionalmente alla Madonna. Non è un caso che in molti Paesi ricorre in questo mese la festa della mamma che è una ricorrenza civile, non religiosa.

Maggio è da sempre considerato il mese della rosa, della  piena rinascita e dell’amore. È il mese dell'anno simbolo della fioritura ed ha come suo fiore simbolo la rosa. Questo fiore è da sempre stato associato al mondo femminile e possiamo indicare due figure simbolo: la dea Venere e, in ambito cristiano, la Vergine Maria.



Feste, ricorrenze e santi

Di seguito trovate le feste, le ricorrenze e i santi del mese di Maggio, inoltre cliccando su uno specifico giorno troverete maggiori informazioni come eventi accaduti nel passato, la lista completa dei santi del giorno e altro ancora.

*Può capitare che alcune giornate mondiali o festività slittino di qualche giorno rispetto alla data indicata in questo articolo.


  • Prima domenica di maggio: Giornata mondiale della risata
  • Seconda domenica di maggio: Festa della Mamma
  • 1 maggio: Festa dei lavoratori
    - S. Giuseppe Lavoratore
  • 2 maggio: Giornata Mondiale dei blogger
    - S. Atanasio
  • 3 maggio: Giornata Mondiale della libertà di stampa
    -SS. Filippo e Giacomo
  • 4 maggio: Giornata mondiale del calcio
    - S. Floriano
  • 5 maggio: Giornata internazionale delle ostetriche, Giornata Mondiale dell’igiene delle mani
    - S. Gioviniano
  • 6 maggio: Giornata Mondiale del colore
    - S. Lucio di Cirene
  • 7 maggio: Giornata Mondiale dell’Asma
    - S. Rosa Venerini
  • 8 maggio: Giornata Mondiale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, Giornata Mondiale della Talassemia
    - S. Vittore
  • 9 maggio: Giornata Mondiale degli uccelli migratori, Giornata mondiale della lentezza, Giornata Mondiale del commercio equo
    - S. Isaia
  • 10 maggio: Giornata Mondiale contro il Lupus
    - Ss. Alfio e Giovani d'Avila
  • 11 maggio: Giornata Mondiale dell’orienteering
    - S. Ignazio da Làconi
  • 12 maggio: Giornata Mondiale dell’infermiere, Giornata Mondiale della Fibromialgia
    - Ss. Nereo e Achilleo
  • 13 maggio: Parte il primo Giro d'Italia
    - Beata Vergine Maria di Fatima
  • 14 maggio: Lina Medina, 5 anni, più giovane madre nella storia
    - S. Mattia
  • 15 maggio: Giornata Internazionale della famiglia
    - S. Severino
  • 16 maggio: Inaugurazione del Teatro Massimo di Palermo
    - S. Ubaldo
  • 17 maggio: Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, Giornata Mondiale per le telecomunicazioni e della società dell’informazione
    - S. Pasquale Baylon
  • 18 maggio: Giornata internazionale dei musei
    - S. Giovanni I
  • 19 maggio: Giornata Mondiale del whisky
    - S. Ivo
  • 20 maggio: Giornata Mondiale delle api
    - S. Bernardino da Siena
  • 21 maggio: Giornata internazionale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo
    - S. Paterno
  • 22 maggio: Giornata internazionale della biodiversità
    - S. Rita da Cascia
  • 23 maggio: Giornata Mondiale delle tartarughe
    - S. Desiderio
  • 24 maggio: Giornata europea delle aree protette
    - SS. Donaziano e Rogaziano
  • 25 maggio: Giornata mondiale dell'Africa, Giornata internazionale dei bambini scomparsi
    - S. Beda
  • 26 maggio: Comincia la prima 24 Ore di Le Mans
    - S. Filippo Neri
  • 27 maggio: Invenzione del nastro adesivo
    - S. Agostino di Canterbury
  • 28 maggio: Giornata mondiale dell’hamburger
    - S. Ubaldesca
  • 29 maggio: Giornata internazionale dei Peacekeeper
    - S. Paolo VI
  • 30 maggio: Giornata Mondiale contro la sclerosi multipla
    - S. Gavino
  • 31 maggio: Giornata mondiale senza tabacco
    - Visita Beata Vergine Maria


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Inno alla morte - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "Inno alla morte" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1925 e fa parte della raccolta Sentimento del tempo, nella sezione La fine di Crono.



Indice




Testo

Amore, mio giovine emblema,
Tornato a dorare la terra,
Diffuso entro il giorno rupestre,
E' l'ultima volta che miro
(Appiè del botro, d'irruenti
Acque sontuoso, d'antri
Funesto) la scia di luce
Che pari alla tortora lamentosa
Sull'erba svagata si turba.

Amore, salute lucente,
Mi pesano gli anni venturi.

Abbandonata la mazza fedele,
Scivolerò nell'acqua buia
Senza rimpianto.

Morte, arido fiume...

Immemore sorella, morte,
L'uguale mi farai del sogno
Baciandomi.

Avrò il tuo passo,
Andrò senza lasciare impronta.
Mi darai il cuore immobile
D'un iddio, sarò innocente,
Non avrò più pensieri nè bontà.

Colla mente murata,
Cogli occhi caduti in oblio,
Farò da guida alla felicità.



Analisi del testo e commento

Questa poesia inizia con un'invocazione d'amore, un amore collegato all'immagine del sole che illumina con la sua luce ed è dorato in quanto viene fatto riferimento ad Apollo, Dio del sole, che col cocchio dorato attraversava il cielo durante il giorno.
Ungaretti ricorre al binomio eros e thanatos, ma usa anche termini già presenti in alcuni suoi componimenti precedenti. Come per esempio il verbo "turbare" della prima strofa, era già stato usato in Sirene, ma come effetto dell’azione d’amore e che in questo caso invece viene applicato alla luce: se per Agostino essa mette in evidenza la realtà, dall'altra parte (per Cezanne) è quella che fa cambiare gli aspetti della realtà in quanto lui non dipinge quello che è, ma quello che vede e percepisce, che cambia a seconda di come è la luce (gioco di luci e ombre).
Qui, l'amore raffigurato come immagine del tempo, del sole e della forza è un'emblema di giovinezza che fa da contrasto alla vecchiaia ("mi pesano gli anni venturi"), che è solo il principio di un percorso che porta alla morte.
Il "giorno rupestre" sta a significare che l'alba è collocata all'interno di un paesaggio rupestre (costituito da rocce grandi e scoscese), a cui aggiunge che vi sono fossati, cavità naturali e corsi d'acqua che scorrono impetuosi.
Continua creando un legame di tipo sinestetico tra la luce e la tortora: dice che la scia di luce è paragonabile allo spostamento della tortora, perché la scia di luce è in continuo cambiamento. Di conseguenza si ha la percezione non solo del mutare delle cose ma anche del fatto che ci sfuggono e possiamo perderle per sempre e, quindi, la vita non è altro che la perdita di un qualcosa. È per questo che al poeta pesano gli anni che dovranno ancora arrivare (venturi), in quanto oltre a quelli che ha già perso se ne andranno ad aggiungerne altri che faranno la stessa fine. Continua dicendo che l'amore è una la luce che diventa lucente (v. 10), un altro modo per dire che è l'immagine stessa della vita, cioè senza amore non c'è vita.

Giungiamo quindi nei versi più importanti del testo "Abbandonata la mazza fedele..morte arido fiume", dove il poeta come era solito fare nelle poesie della raccolta Sentimento del tempo, fa riferimento a un fiume e per ogni fiume corrisponde un periodo storico della sua vita. Tutti i fiumi sfociano nell'Isonzo e il fiume in questione rappresenta la nostalgia per ciò che non c'è più; l'acqua è buia perché in essa si riflette l'oscurità della notte e il vuoto della perdita, ma anche perché è arrido. Per Ungaretti l'acqua raffigura la vita e l'assenza di acqua raffigura la morte. Il rapporto tra Ungaretti e la morte è così stretto da essergli familiare, infatti definisce la morte come una sorella ("Immemore sorella morte").

Infine, riprendendo il concetto di eros e thanatos, il poeta ci vuole dire che la piena consapevolezza del gesto di abbandonare la "mazza fedele", cioè accettando la morte, può scatenare nel nostro animo le stesse piacevoli sensazioni prodotte da un rapporto d'amore. È la fine dei rimpianti ("Non avrò più pensieri né bontà") e l'inizio di una speranza ("Farò da guida alla felicità").



Figure retoriche

Anafora = "Amore" (v. 1, 10).

Antitesi = "irruenti" (v. 5) e "arido" (v. 15).

Antitesi = "luce" (v. 7) e "buia" (v. 13).

Sinestesia = "scia di luce Che pari alla tortora lamentosa" (vv. 7-8). Sfera sensoriale visiva e uditiva.

Similitudine = scia di luce Che pari alla tortora lamentosa" (vv. 7-8).

Paronomasia = "turba" (v. 9) al posto di "tuba", che è il verso della tortora.

Metafora = "cuore immobile" (v. 21).

Paronomasia = "mentre" al posto di "mente" (v. 24).
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Mughetto - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "Mughetto" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti e fa parte della raccolta Vita d'un uomo, nella sezione Poesie disperse. È apparsa nel 1915 sulla rivista «Lacerba», poi rifiutata forse perché un po' crepuscolare.



Indice




Testo

Mughetto fiore piccino
calice di enorme candore
sullo stelo esile
innocenza di bimbi gracile
sull'altalena del cielo.



Analisi del testo e commento

Il poeta osserva una pianta di mughetto, caratterizzata da piccoli fiori bianchi a forma di campana e dal profumo molto intenso raccolti a grappolo. Alle ridotte dimensioni e alla delicatezza del fiore fa da contrasto l'enorme candore del suo bianco e questo gli fa venire in mente la grande innocenza e purezza dei bambini che fa contrasto con la loro fragilità. Inoltre il mughetto è una pianta che cresce nei boschi umidi, ombreggiati e nascosti, come se volesse nascondersi per evitare il contatto con il mondo.



Figure retoriche

Antitesi = "piccino" (v. 1) e "enorme" (v. 2).

Metonimia = "innocenza di bimbi gracile sull'altalena" (vv. 4-5). L'astratto per il concreto.

Metafora = "sull'altalena del cielo" (v. 5).
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Purgatorio Canto 6 - Parafrasi

Sordello da Goito inginocchiato di fronte a Virgilio, illustrazione di Gustave Doré.

Il canto inizia con le anime dei morti uccisi per violenza che fanno ressa intorno a Dante per raccomandarsi a lui e alle sue preghiere.
Esse gli si accalcano intorno, e a ciascuna Dante promette dunque di ricordarle, una volta tornato sulla Terra.
Per descrivere questa situazione, il poeta ricorre ad una similitudine, nella quale paragona se stesso ad un vincitore del gioco della “zara”.
La zara era un gioco piuttosto popolare all’epoca, ed era una specie di morra che si era soliti praticare nelle taverne o nelle osterie, facendo uso di tre dadi.
Il gioco era di origine orientale, infatti il termine “zara” altro non è che la storpiatura della parola araba (“zahr”) che significa “dado”, e dalla quale in italiano deriva anche la parola “azzardo”. Virgilio nota in disparte l'anima di Sordello, poeta mantovano come lui, e lo abbraccia. A quella vista Dante amaramente ricorda come gli Italiani siano invece in continua lotta fra loro, con i Fiorentini in prima fila.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 6 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Quando il gioco della zara finisce (si parte),
colui che perde resta addolorato,
riprovando le gittate (le volte) dei dadi e rattristato (tristo) cerca di imparare;
col vincitore (l’altro) se ne va tutto il pubblico;
chi gli sta davanti, e chi lo tira (il prende) di dietro,
e chi gli si affianca per farsi notare (li si reca a mente):
egli non si ferma, e ascolta (intende) questo e quello;
chi ottiene qualcosa, si sottrae alla ressa (più non fa pressa);
e così facendo si difende dalla calca.
In una stessa situazione mi trovavo io fra quella folla (turba spessa) di anime,
e rivolgendo il viso verso di loro, un po’ da una parte e un po’ dall’altra,
mi liberavo (mi sciogliea) da essa promettendo (suffragi).
Era qui l’Aretino (Benincasa da Laterina), che fu ucciso
dalle braccia feroci (fiere) di Ghino di Tacco,
e c’era colui (Guccio dei Tarlati) che annegò inseguendo (in caccia) i nemici.
Qui pregava con le mani protese (sporte)
Federigo Novello, e quel di Pisa (Gano degli Scornigiani)
che fece apparire forte il virtuoso Marzucco.
Vidi il conte Orso e l’anima separata dal suo corpo,
come egli stesso diceva, per odio e per invidia (inveggia),
non per aver commesso alcuna colpa;
parlo di Pier della Broccia; e a questo proposito provveda (proveggia)
Maria di Brabante, finché è nel mondo (mentr’è di qua),
così che per ciò (però) non debba appartenere a una schiera infernale (peggior greggia).
Appena fui libero da tutte quante
quelle anime che pregavano soltanto perché i vivi pregassero (ch’altri prieghi) (per loro),
in modo che si affretti (s’avacci) la loro salvezza,
io presi a dire: «Mi pare, o mia guida illuminante,
che tu in qualche tuo libro (testo) neghi esplicitamente (espresso)
che la preghiera possa piegare i decreti del cielo;
e queste anime pregano solo per questo:
la loro speranza sarebbe quindi vana,
o quello che tu hai detto non mi è ben chiaro (manifesto)?».
Ed egli a me: «La mia scrittura è chiara;
ma la speranza di costoro non è vana (non falla),
se si guarda attentamente (ben) con mente retta (sana);
perché l’alto giudizio divino (cima di giudicio) non si piega (s’avalla)
per il fatto che un ardore (foco) di carità risolva (compia) in un solo momento
ciò che deve espiare chi sosta (s’astalla) qui;
e là dove io trattai (fermai) questa questione (punto),
con la preghiera non si espiava (non s’ammendava … difetto),
perché la preghiera era disgiunta da Dio.
Pur tuttavia (Veramente) non fermarti davanti
a un così profondo dubbio, finché non te lo chiarirà colei
che sarà luce (lume fia) tra la verità e il tuo intelletto.
Non so se capisci: mi riferisco a Beatrice;
tu la vedrai felice e ridente più in alto (di sopra),
sulla cima di questo monte».
E io gli dissi: «Signore, camminiamo più in fretta,
perché ora non sento più la fatica come prima,
e vedi ormai che il monte (poggio) proietta la sua ombra».
«Noi andremo avanti – rispose – finché è giorno,
quanto più possiamo ormai;
ma la ragione è diversa da quella che tu pensi (stanzi).
Prima di arrivare lassù, tu vedrai sorgere altre volte (tornar) il sole,
che già si nasconde (si cuopre) dietro il monte,
tanto che tu non interrompi più i suoi raggi.
Ma guarda là un’anima che, seduta (posta)
tutta sola, guarda fisso verso di noi:
quella ci indicherà la via più breve (più tosta)».
Ci avvicinammo a lei: o anima lombarda,
come apparivi fiera e sdegnosa
e com’era dignitoso e pacato (onesta e tarda) il movimento del tuo sguardo!
Ella non ci parlava,
ma ci lasciava avvicinare (lasciavane gir), muovendo solo gli occhi
come (a guisa di) un leone quando sta in riposo.
Nondimeno (Pur) Virgilio si avvicinò (si trasse) a lei,
pregandola che ci indicasse la strada più agevole per salire;
e quella non rispose alla sua domanda,
ma ci chiese (ci ’nchiese) del nostro paese e della nostra vita;
e la dolce guida aveva appena preso a dire
«Mantova...», quando l’ombra, prima tutta raccolta (romita) in se stessa,
si alzò dal posto dove stava prima e corse verso di lui dicendo:
«O Mantovano, io sono Sordello
della tua stessa terra!», e l’uno abbracciava l’altro.
Ahi Italia serva, luogo (ostello) di dolore,
nave senza timoniere (nocchiere) nella gran tempesta,
non più signora (donna) di province, ma bordello!
Quell’anima nobile (gentil) fu così svelta (presta)
soltanto per aver sentito risuonare il dolce nome della sua città (terra),
a festeggiare qui il suo concittadino;
e invece i tuoi abitanti (li vicini tuoi) non stanno in te senza farsi guerra,
anzi si dilaniano (si rode) fra loro persino
quelli che abitano rinchiusi da un unico muro e un unico fossato.
Guarda (cerca) misera, le tue marine lungo i litorali (da le prode),
e poi guarda nel tuo stesso seno,
per vedere se alcuna parte di te vive in pace.
A che valse che Giustiniano abbia restaurato (ti racconciasse) per te
il freno delle leggi, se la sella manca del cavaliere (è vota)?
La vergogna sarebbe (fora) minore se non vi fossero tali leggi.
Ahi gente di Chiesa che dovresti essere obbediente al volere di Dio (esser devota)
e lasciare che Cesare stia in sella,
se comprendi nel senso giusto ciò che Dio ordina (ti nota),
guarda come questa bestia selvaggia è diventata ribelle (fella)
perché non è governata dagli sproni dell’imperatore,
dopo che tu prendesti le redini (predella).
O Alberto d’Asburgo (tedesco), che abbandoni
l’Italia che è diventata ribelle (indomita) e selvaggia,
mentre dovresti guidarla cavalcandola (inforcar li suoi arcioni),
la giusta punizione (giudicio) scenda (caggia) dal cielo
contro la tua stirpe, e sia tremenda e chiara (novo e aperto),
in modo tale che il tuo successore ne abbia terrore (temenza n’aggia)!
Perché tu e tuo padre avete sopportato (sofferto),
distolti (distretti) dalla cupidigia dei domini tedeschi,
che il giardino dell’Impero restasse abbandonato.
Vieni a vedere le lotte fra Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uomo che non ti prendi cura (sanza cura):
i primi già abbattuti e i secondi col timore (con sospetti) di esserlo!
Vieni, o crudele, vieni, e guarda la tribolazione (pressura)
dei tuoi seguaci (gentili), e cura i loro mali (magagne);
e vedrai com’è in decadenza Santafiora!
Vieni a vedere la tua Roma che,
abbandonata dal marito, piange e chiama giorno e notte:
«Cesare mio, perché non mi guidi?».
Vieni a vedere quanto si ama la gente!
e se non ti muove nessuna pietà di noi,
vieni a vergognarti della tua fama.
E se mi è permesso (se licito m’è), o sommo Cristo (Giove),
che fosti crocefisso per noi sulla terra,
la tua giustizia (li giusti occhi tuoi) si è rivolta altrove?
Oppure nella profondità della tua mente
provvidenziale (consiglio) prepari un qualche bene,
assolutamente disgiunto (scisso) dalla nostra capacità di capire (l’accorger nostro)?
Perché le città d’Italia sono tutte piene
di tiranni, e ogni villano che si destreggia
nei partiti (parteggiando viene) diventa un Marcello.
Firenze mia, puoi ben essere contenta
di questa mia digressione che non ti riguarda,
grazie (mercé) all’opera del tuo popolo che si ingegna (si argomenta) a ben operare.
Molti hanno la giustizia nel cuore, ma si manifesta tardi (tardi scocca),
perché non scocchi la freccia del giudizio senza ponderazione;
ma il tuo popolo l’ha in punta (in sommo) di labbra.
Molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche (lo comune incarco);
ma il tuo popolo pronto (solicito) senza esser chiamato
risponde e grida: «Accetto la grave responsabilità (mi sobbarco)!».
Ora rallegrati, perché tu hai ben di che rallegrarti:
tu che sei ricca, che vivi in pace, che hai giudizio!
I fatti mostrano chiaramente (l’effetto nol nasconde) se io dico la verità.
Atene e Sparta (Lacedemona), che crearono
le antiche leggi e furono tanto civili,
fornirono per quanto riguarda il vivere civile un ben magro esempio (picciol cenno)
a paragone (verso) di te, che emani
provvedimenti così sottili, che quello che tu crei
in ottobre non giunge a metà novembre.
Quante volte, nel tempo che ricordi,
tu hai cambiato leggi, moneta, uffici pubblici e consuetudini,
e hai rinnovato i tuoi cittadini!
E se ben ricordi e vedi chiaramente (vedi lume),
potrai paragonare te a quell’ammalata
che non riesce a trovare una posizione riposante nel letto (piume),
ma cerca rivoltandosi di trovare sollievo (scherma) al suo dolore.
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Purgatorio Canto 5 - Parafrasi

La morte di Bonconte da Montefeltro, illustrazione di Gustave Doré

Continuando a salire, Dante e Virgilio incontrano i negligenti morti violentemente. Questi notano che il corpo di Dante proietta l'ombra, e quindi è vivo; lo pregano perciò di dire loro se riconosce qualcuno per il quale fare pregare i vivi. Pur non conoscendone nessuno, Dante promette di esaudire i loro desideri; si fanno avanti Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de' Tolomei.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 5 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Io mi ero già allontanato (partito) da quelle ombre,
e seguivo i passi (orme) della mia guida,
quando alle mie spalle, puntando (drizzando) il dito,
una gridò: «Vedi (Ve’) che non sembra che il raggio di sole trapassi (luca)
dalla parte sinistra quello che sta dietro,
e sembra che cammini (si conduca) come un vivo!».
Al suono di queste parole (motto) volsi indietro lo sguardo
e le vidi guardare con stupore solo (pur) me,
solo me e la luce del sole che era interrotta.
«Perché la tua attenzione si lascia distrarre (s’impiglia)»,
disse il maestro, «tanto da rallentare il passo?
che t’importa (ti fa) di quello che qui si bisbiglia (pispiglia)?
Seguimi, e lascia che la gente parli:
sta come una torre immobile, che non muove (crolla)
mai la cima per quanto soffino i venti;
perché l’uomo il cui pensiero nasce (rampolla)
continuamente su un altro, allontana (dilunga) da sé la meta,
poiché l’impeto (foga) di uno indebolisce (insolla) l’altro».
Che cosa potevo rispondere (ridir), se non «Io vengo»?
Lo dissi, un po’ soffuso (consperso) del colore
che talvolta rende l’uomo degno di essere perdonato.
E intanto lungo il balzo perpendicolare (di traverso)
a noi, un po’ più in alto, veniva gente cantando
in coro a versi alternati (a verso a verso) il «Miserere».
Quando si accorsero che io non davo modo (loco)
ai raggi del sole di trapassare il mio corpo,
trasformarono il loro canto in un «oh!» lungo e fioco;
e due di loro, in qualità di messaggeri (in forma di messaggi),
ci corsero incontro e ci chiesero:
«Spiegateci (fatene saggi) il vostro stato».
E il mio maestro: «Voi potete ritornare e
riferire (ritrarre) a coloro che vi hanno mandati
che il corpo di costui è di vera carne.
Se si sono fermati (restaro) per lo stupore nel vedere la sua ombra,
come credo di capire, questa risposta è sufficiente:
lo accolgano con cortesia, che per loro potrebbe essere vantaggioso (caro)».
Non vidi mai stelle cadenti (Vapori accesi)
al principio della notte fendere così velocemente (tosto) il cielo sereno,
né lampi (Vapori accesi) attraversare nubi estive, al calare del sole,
che coloro non tornassero su (suso) in minor tempo;
e giunti lassù, tornarono (dier volta) tutti insieme nella nostra direzione,
come una schiera che corre sfrenatamente.
«Queste anime che si accalcano (preme) intorno a noi sono molte,
e vengono a chiederti favori», disse il poeta,
«perciò (però) avanza, e ascoltale mentre cammini (in andando)».
«O anima che procedi per raggiungere la beatitudine
con lo stesso corpo con cui nascesti»,
venivano gridando, «rallenta (queta) un poco il passo.
Osserva se mai (unqua) vedesti qualcuno di noi,
in modo che tu possa riportarne notizie (novella) nel mondo:
deh, perché continui a camminare? deh, perché non ti fermi?
Noi morimmo tutti violentemente (per forza),
e fummo peccatori fino all’ultima ora;
in quel momento la grazia (lume) celeste ci rese consapevoli (ne fece accorti),
tanto che, col pentimento e col perdono,
uscimmo dalla vita riconciliati con Dio,
il quale ci strugge (n’accora) col desiderio di vederlo».
E io: «Per quanto (Perché) io guardi attentamente (guati) nei vostri visi,
non riconosco alcuno, ma se desiderate qualcosa
che io possa fare, spiriti ben destinati (nati),
dite pure, e io l’esaudirò in nome di quella pace
che mi spinge a cercarla di mondo in mondo,
seguendo i passi (dietro a’ piedi) di una così autorevole guida».
E uno cominciò: «Ognuno di noi si fida
delle tue promesse (beneficio tuo) senza che tu lo giuri,
a meno che la tua intenzione non sia recisa dall’impossibilità (nonpossa).
Per cui io che parlo da solo prima degli altri,
ti prego, se mai vedrai quel paese situato
fra la Romagna e il regno di Carlo d’Angiò,
che tu sia generoso (cortese) nel chiedere suffragi per la mia anima (prieghi)
a Fano, in modo che i buoni (ben) preghino (s’adori) per me,
affinché io possa purgare le gravi colpe.
Io fui di là (Quindi: cioè di Fano), ma le profonde ferite (fòri)
dalle quali sgorgò il sangue in cui aveva sede la mia anima (io sedea),
mi furono fatte nel territorio (in grembo) di Antenore,
là dove io credevo di essere più sicuro:
me le provocò (il fé far) quello d’Este, che mi odiava
molto più in là dei limiti del giusto (dritto).
Ma se fossi fuggito verso Mira,
quando mi raggiunsero (fu’ sovragiunto) a Oriago,
sarei ancora là dove si respira.
Corsi verso la palude, e le canne e il fango (braco)
mi impigliarono tanto che caddi; e lì vidi
il mio sangue fare in terra un lago».
Poi disse un altro: «Deh, che possa realizzarsi
quel desiderio che ti conduce (tragge) verso l’alto monte,
e tu aiuta il mio con la pietosa preghiera (buona pïetate)!
Io fui da Montefeltro, io son Buonconte:
Giovanna o altri non si curano della mia salvezza;
perciò io cammino (vo) fra queste anime a capo chino».
E io a lui: «Quale violenza o quale caso (ventura)
ti trascinò (traviò) così lontano (fuor) da Campaldino,
che non si seppe mai dove eri stato sepolto (tua sepoltura)?».
«Oh!» rispose egli, «nella parte sud (a piè) del Casentino
scorre perpendicolare (all’Arno) un fiume che si chiama Archiano,
che nasce sugli Appennini sopra l’Eremo.
Là dove il suo nome cambia (diventa vano),
io arrivai con una ferita (forato) nella gola,
fuggendo a piedi e insanguinando la pianura.
Qui perdetti i sensi della vista e della parola;
le ultime parole (fini’) furono un’invocazione alla Madonna (nel nome di Maria),
e qui caddi morto e rimase solo la mia carne.
Io dirò la verità e tu riferiscila (ridì) nel mondo dei vivi:
l’angelo di Dio prese la mia anima, mentre quello dell’Inferno
gridava: ‘O tu del cielo, perché mi togli questo diritto?
Tu porti via l’anima (l’etterno) di costui,
per una lacrimuccia di pentimento che me la sottrae (toglie);
ma io farò del suo corpo (de l’altro) un diverso trattamento!’.
Sai bene come si addensa (si raccoglie) nell’aria
il vapore umido che torna giù in pioggia (in acqua riede),
appena (tosto che) raggiunge la zona dell’aria (sale) dove è colto dalle zone fredde.
Quel diavolo (mal voler), che con il suo intelletto vuole (chiede)
solo il male, sopraggiunse e agitò (mosse) il vento e le nubi
per via del potere (virtù) che gli deriva dalla sua natura.
Poi coprì di nebbia la pianura, appena finì (fu spento) il giorno,
da Pratomagno alla catena principale degli Appennini (gran giogo);
e di sopra fece addensare (intento) nubi nel cielo,
tanto che l’aria satura (pregno) si convertì in acqua;
cadde la pioggia, e quella che la terra non
poté assorbire (non sofferse) confluì nei fossi;
e appena si raccolse (si convenne) nei torrenti (rivi grandi),
si riversò (si ruinò) in direzione dell’Arno (ver lo fiume real)
così velocemente, che niente la fermò (la ritenne).
L’Archiano impetuoso (rubesto) raggiunse
il mio corpo gelato sulla foce; e lo trascinò
nell’Arno, sciogliendo dal mio petto la croce
che avevo fatto con le braccia quando fui vinto dal dolore;
mi rivoltò (voltòmmi) lungo le rive e sul fondo,
poi con i suoi detriti mi coprì e avvolse (cinse)».
«Deh, quando tu sarai ritornato nel mondo
e riposato dal lungo viaggio (de la lunga via)»,
seguì il terzo spirito al secondo,
«ricordati di me, che sono la Pia;
nacqui (mi fé) a Siena, morii (disfecemi) in Maremma:
lo sa (salsi) colui che prima,
sposandomi, mi aveva inanellata con la sua gemma nuziale».
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