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Purgatorio Canto 6 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto sesto (canto VI) del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Sordello da Goito inginocchiato di fronte a Virgilio, illustrazione di Gustave Doré.

Il canto inizia con le anime dei morti uccisi per violenza che fanno ressa intorno a Dante per raccomandarsi a lui e alle sue preghiere.
Esse gli si accalcano intorno, e a ciascuna Dante promette dunque di ricordarle, una volta tornato sulla Terra.
Per descrivere questa situazione, il poeta ricorre ad una similitudine, nella quale paragona se stesso ad un vincitore del gioco della “zara”.
La zara era un gioco piuttosto popolare all’epoca, ed era una specie di morra che si era soliti praticare nelle taverne o nelle osterie, facendo uso di tre dadi.
Il gioco era di origine orientale, infatti il termine “zara” altro non è che la storpiatura della parola araba (“zahr”) che significa “dado”, e dalla quale in italiano deriva anche la parola “azzardo”. Virgilio nota in disparte l'anima di Sordello, poeta mantovano come lui, e lo abbraccia. A quella vista Dante amaramente ricorda come gli Italiani siano invece in continua lotta fra loro, con i Fiorentini in prima fila.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 6 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Quando il gioco della zara finisce (si parte),
colui che perde resta addolorato,
riprovando le gittate (le volte) dei dadi e rattristato (tristo) cerca di imparare;
col vincitore (l’altro) se ne va tutto il pubblico;
chi gli sta davanti, e chi lo tira (il prende) di dietro,
e chi gli si affianca per farsi notare (li si reca a mente):
egli non si ferma, e ascolta (intende) questo e quello;
chi ottiene qualcosa, si sottrae alla ressa (più non fa pressa);
e così facendo si difende dalla calca.
In una stessa situazione mi trovavo io fra quella folla (turba spessa) di anime,
e rivolgendo il viso verso di loro, un po’ da una parte e un po’ dall’altra,
mi liberavo (mi sciogliea) da essa promettendo (suffragi).
Era qui l’Aretino (Benincasa da Laterina), che fu ucciso
dalle braccia feroci (fiere) di Ghino di Tacco,
e c’era colui (Guccio dei Tarlati) che annegò inseguendo (in caccia) i nemici.
Qui pregava con le mani protese (sporte)
Federigo Novello, e quel di Pisa (Gano degli Scornigiani)
che fece apparire forte il virtuoso Marzucco.
Vidi il conte Orso e l’anima separata dal suo corpo,
come egli stesso diceva, per odio e per invidia (inveggia),
non per aver commesso alcuna colpa;
parlo di Pier della Broccia; e a questo proposito provveda (proveggia)
Maria di Brabante, finché è nel mondo (mentr’è di qua),
così che per ciò (però) non debba appartenere a una schiera infernale (peggior greggia).
Appena fui libero da tutte quante
quelle anime che pregavano soltanto perché i vivi pregassero (ch’altri prieghi) (per loro),
in modo che si affretti (s’avacci) la loro salvezza,
io presi a dire: «Mi pare, o mia guida illuminante,
che tu in qualche tuo libro (testo) neghi esplicitamente (espresso)
che la preghiera possa piegare i decreti del cielo;
e queste anime pregano solo per questo:
la loro speranza sarebbe quindi vana,
o quello che tu hai detto non mi è ben chiaro (manifesto)?».
Ed egli a me: «La mia scrittura è chiara;
ma la speranza di costoro non è vana (non falla),
se si guarda attentamente (ben) con mente retta (sana);
perché l’alto giudizio divino (cima di giudicio) non si piega (s’avalla)
per il fatto che un ardore (foco) di carità risolva (compia) in un solo momento
ciò che deve espiare chi sosta (s’astalla) qui;
e là dove io trattai (fermai) questa questione (punto),
con la preghiera non si espiava (non s’ammendava … difetto),
perché la preghiera era disgiunta da Dio.
Pur tuttavia (Veramente) non fermarti davanti
a un così profondo dubbio, finché non te lo chiarirà colei
che sarà luce (lume fia) tra la verità e il tuo intelletto.
Non so se capisci: mi riferisco a Beatrice;
tu la vedrai felice e ridente più in alto (di sopra),
sulla cima di questo monte».
E io gli dissi: «Signore, camminiamo più in fretta,
perché ora non sento più la fatica come prima,
e vedi ormai che il monte (poggio) proietta la sua ombra».
«Noi andremo avanti – rispose – finché è giorno,
quanto più possiamo ormai;
ma la ragione è diversa da quella che tu pensi (stanzi).
Prima di arrivare lassù, tu vedrai sorgere altre volte (tornar) il sole,
che già si nasconde (si cuopre) dietro il monte,
tanto che tu non interrompi più i suoi raggi.
Ma guarda là un’anima che, seduta (posta)
tutta sola, guarda fisso verso di noi:
quella ci indicherà la via più breve (più tosta)».
Ci avvicinammo a lei: o anima lombarda,
come apparivi fiera e sdegnosa
e com’era dignitoso e pacato (onesta e tarda) il movimento del tuo sguardo!
Ella non ci parlava,
ma ci lasciava avvicinare (lasciavane gir), muovendo solo gli occhi
come (a guisa di) un leone quando sta in riposo.
Nondimeno (Pur) Virgilio si avvicinò (si trasse) a lei,
pregandola che ci indicasse la strada più agevole per salire;
e quella non rispose alla sua domanda,
ma ci chiese (ci ’nchiese) del nostro paese e della nostra vita;
e la dolce guida aveva appena preso a dire
«Mantova...», quando l’ombra, prima tutta raccolta (romita) in se stessa,
si alzò dal posto dove stava prima e corse verso di lui dicendo:
«O Mantovano, io sono Sordello
della tua stessa terra!», e l’uno abbracciava l’altro.
Ahi Italia serva, luogo (ostello) di dolore,
nave senza timoniere (nocchiere) nella gran tempesta,
non più signora (donna) di province, ma bordello!
Quell’anima nobile (gentil) fu così svelta (presta)
soltanto per aver sentito risuonare il dolce nome della sua città (terra),
a festeggiare qui il suo concittadino;
e invece i tuoi abitanti (li vicini tuoi) non stanno in te senza farsi guerra,
anzi si dilaniano (si rode) fra loro persino
quelli che abitano rinchiusi da un unico muro e un unico fossato.
Guarda (cerca) misera, le tue marine lungo i litorali (da le prode),
e poi guarda nel tuo stesso seno,
per vedere se alcuna parte di te vive in pace.
A che valse che Giustiniano abbia restaurato (ti racconciasse) per te
il freno delle leggi, se la sella manca del cavaliere (è vota)?
La vergogna sarebbe (fora) minore se non vi fossero tali leggi.
Ahi gente di Chiesa che dovresti essere obbediente al volere di Dio (esser devota)
e lasciare che Cesare stia in sella,
se comprendi nel senso giusto ciò che Dio ordina (ti nota),
guarda come questa bestia selvaggia è diventata ribelle (fella)
perché non è governata dagli sproni dell’imperatore,
dopo che tu prendesti le redini (predella).
O Alberto d’Asburgo (tedesco), che abbandoni
l’Italia che è diventata ribelle (indomita) e selvaggia,
mentre dovresti guidarla cavalcandola (inforcar li suoi arcioni),
la giusta punizione (giudicio) scenda (caggia) dal cielo
contro la tua stirpe, e sia tremenda e chiara (novo e aperto),
in modo tale che il tuo successore ne abbia terrore (temenza n’aggia)!
Perché tu e tuo padre avete sopportato (sofferto),
distolti (distretti) dalla cupidigia dei domini tedeschi,
che il giardino dell’Impero restasse abbandonato.
Vieni a vedere le lotte fra Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uomo che non ti prendi cura (sanza cura):
i primi già abbattuti e i secondi col timore (con sospetti) di esserlo!
Vieni, o crudele, vieni, e guarda la tribolazione (pressura)
dei tuoi seguaci (gentili), e cura i loro mali (magagne);
e vedrai com’è in decadenza Santafiora!
Vieni a vedere la tua Roma che,
abbandonata dal marito, piange e chiama giorno e notte:
«Cesare mio, perché non mi guidi?».
Vieni a vedere quanto si ama la gente!
e se non ti muove nessuna pietà di noi,
vieni a vergognarti della tua fama.
E se mi è permesso (se licito m’è), o sommo Cristo (Giove),
che fosti crocefisso per noi sulla terra,
la tua giustizia (li giusti occhi tuoi) si è rivolta altrove?
Oppure nella profondità della tua mente
provvidenziale (consiglio) prepari un qualche bene,
assolutamente disgiunto (scisso) dalla nostra capacità di capire (l’accorger nostro)?
Perché le città d’Italia sono tutte piene
di tiranni, e ogni villano che si destreggia
nei partiti (parteggiando viene) diventa un Marcello.
Firenze mia, puoi ben essere contenta
di questa mia digressione che non ti riguarda,
grazie (mercé) all’opera del tuo popolo che si ingegna (si argomenta) a ben operare.
Molti hanno la giustizia nel cuore, ma si manifesta tardi (tardi scocca),
perché non scocchi la freccia del giudizio senza ponderazione;
ma il tuo popolo l’ha in punta (in sommo) di labbra.
Molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche (lo comune incarco);
ma il tuo popolo pronto (solicito) senza esser chiamato
risponde e grida: «Accetto la grave responsabilità (mi sobbarco)!».
Ora rallegrati, perché tu hai ben di che rallegrarti:
tu che sei ricca, che vivi in pace, che hai giudizio!
I fatti mostrano chiaramente (l’effetto nol nasconde) se io dico la verità.
Atene e Sparta (Lacedemona), che crearono
le antiche leggi e furono tanto civili,
fornirono per quanto riguarda il vivere civile un ben magro esempio (picciol cenno)
a paragone (verso) di te, che emani
provvedimenti così sottili, che quello che tu crei
in ottobre non giunge a metà novembre.
Quante volte, nel tempo che ricordi,
tu hai cambiato leggi, moneta, uffici pubblici e consuetudini,
e hai rinnovato i tuoi cittadini!
E se ben ricordi e vedi chiaramente (vedi lume),
potrai paragonare te a quell’ammalata
che non riesce a trovare una posizione riposante nel letto (piume),
ma cerca rivoltandosi di trovare sollievo (scherma) al suo dolore.



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