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Lettera a Francesco Vettori, Macchiavelli: parafrasi e significato

Appunto di letteratura sulla Lettera a Francesco Vettori: testo, parafrasi, commento e il motivo per cui Niccolò Machiavelli l'ha scritta.
Machiavelli

La lettera a Francesco Vettori è una missiva di Niccolò Machiavelli, scrittore e politico italiano, scritta il 10 dicembre 1513 al suo amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la corte romana di papa Leone X. La scrisse mentre si trovava in esilio ad Albergaccio, la sua casa di campagna situata a Sant'Andrea in Percussina. Questa lettera è un importante documento storico e politico perché attraverso un particolare stile di scrittura riflette il pensiero politico e filosofico di Machiavelli durante un periodo complicato della sua vita e della storia italiana del Rinascimento. Inoltre, nella lettera si fa anche riferimento a quella che sarà la sua opera più importante, Il principe, che avrebbe voluto dedicare alla famiglia De Medici.





Testo





Parafrasi

Al magnifico oratore fiorentino Francesco Vettori, ambasciatore presso il sommo pontefice e mio benefattore. A Roma.

Illustre ambasciatore,
Le grazie di Dio non giungono mai tardi. Dico questo perché credevo non di aver perduto la vostra grazia ma quantomeno di averla smarrita, dal momento che è passato molto tempo dall'ultima volta che mi avete scritto; e mi chiedevo quale potesse esserne la ragione. E tra tutte quelle che mi venivano in mente, ho scelto quella che mi convinceva maggiormente, ovvero che vi fosse stato scritto che io non ero stato un buon custode (massaio) delle vostre lettere; e io so che oltre Filippo e Pagolo nessun altro le ha lette per mio conto.
Ho appreso con grande piacere dalla vostra ultima lettera datata 23 del mese scorso (Novembre) che state svolgendo il vostro incarico pubblico (di ambasciatore) con grande tranquillità e serenità; e io vi invito a continuare in questo modo, perché chi mette da parte il proprio comodo per fare il comodo degli altri, perde il proprio comodo e non ottiene dagli altri nemmeno un segno di riconoscenza (un grazie).
Poiché la Fortuna interagisce in ogni cosa, è meglio lasciarla fare, restando calmi e non ostacolandola, e aspettando che conceda agli uomini il tempo di agire in qualche modo; e allora vi toccherà lavorare di più, prestare maggiore attenzione sulle cose, e io in partenza dalla campagna sarò pronto a dirvi: "Eccomi".
Non posso fare altro, volendovi ricambiare il favore, che raccontarvi attraverso questa lettera qualcosa riguardante la mia vita; e se voi valutate di volerla scambiare con la vostra, sarà lieto di effettuare questo scambio.
Adesso vivo in campagna e dopo il susseguirsi di eventi negativi nella mia vita (arresto ed esilio), mettendoli tutti insieme sono stato a Firenze per soli 20 giorni. Ho cacciato tordi con le mie stesse mani. Mi alzavo di primo mattino, preparavo le trappole, e mi incamminavo con le gabbie addosso che sembravo il Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione (novella del XV sec.); riuscivo a catturare da un minimo di due a un massimo di sei tordi. Ed è così che ho trascorso tutto il mese di Settembre. Poi questo passatempo, per quanto insolito e strano, purtroppo è venuto a mancare: e adesso vi descrivo come conduco la mia vita.
Mi alzo all'alba, mi reco nel bosco di mia proprietà che sto facendo tagliare nel quale sto almeno due ore a rivedere il lavoro fatto il giorno precedente e passo del tempo con i taglialegna che sono spesso coinvolti in dispute o problemi, sia tra loro che con i loro vicini. E riguardo questo bosco ho molte storie interessanti da raccontare che ho vissuto in prima persona, sia con Frosino da Panzano sia con altri che erano interessati all'acquisto della mia legna.
E Frosino, per esempio, aveva mandato a prendere alcune cataste di legna senza dirmi nulla; quando è arrivato il momento di pagare, ha cercato di trattenermi dieci lire, sostenendo che gliele dovevo dare da quattro anni, quando me le vinse a una partita di carte (cricca) tenutasi nella casa di Antonio Guicciardini. Io stavo iniziando ad arrabbiarmi, volevo accusare di furto il carrettiere che aveva trasportato la legna. Alla fine Giovanni Machiavelli (probabile parente di Niccolò Machiavelli) intervenne nel conflitto e ci aiutò a trovare un accordo.
Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e diversi altri cittadini, mi hanno acquistato una catasta a testa quando il vento di tramontana aveva iniziato a soffiare (era arrivato il freddo). Io le avevo conservate per tutti: ne ho mandata una (catasta) a Tommaso, che ne fece ritornare metà a Firenze, perché a caricarla vi erano lui, la moglie, la fantesca e i figli, ed egli (Tommaso) sembrava il Gaburra coi suoi garzoni quando bastona il bue di giovedì. Pertanto, constatato quanto fosse il guadagno (mediocre), ho informato gli altri che non avevo più legna, suscitando l'irritazione di tutti, in particolare di Batista, che ha inserito questo fatto tra le altre sciagure accadute a Prato.
Dopo aver lasciato il bosco, mi dirigo verso una sorgente e poi verso una mia uccelliera (gabbia per uccelli). Sottomano ho un libro, che sia di Dante, Petrarca o uno di quegli autori minori come Tibullo o Ovidio, e leggo le loro poesie d'amore. Questi versi e storie d'amore mi ricordano i miei e mi immergo un po' in questi piacevoli pensieri. Successivamente mi sposto sulla strada e nell'osteria, dove converso con coloro che sono di passaggio. Gli chiedo informazioni sui loro luoghi d'origine, apprendo nuove cose e osservo i diversi gusti e fantasie delle persone. Nel frattempo giunge l'ora del pranzo, io e la mia gente ci nutriamo di quei prodotti che questa modesta campagna e il piccolo patrimonio ci consentono.
Dopo aver pranzato, ritorno all'osteria, dove solitamente ci sono l'oste, un mugnaio e due fornai. Insieme a loro passo l'intera giornata giocando a cricca, a tric-trac, da cui spesso scaturiscono discussioni accese e scambi di parole offensive; di solito si litiga per qualche soldo, e ci sentono gridare fino a San Casciano. Così, occupato con questa gente squallida, libero la mia mente dalle preoccupazioni e scarico la frustrazione legata alla mia sorte, essendo contento che continui a calpestarmo in questo modo, per vedere se alla fin essa stessa (la cattiva sorte) non provi vergogna.
Quando arriva la sera, me ne torno a casa e mi dirigo verso il mio studio. Appena sull'uscio, mi libero dai vestiti indossati per tutto il giorno, pieni di fango e sporco, e indosso abiti degni di re e di corti (reali e curiali). Vestito in modo adeguato, entro nelle antiche corti degli uomini del passato, dove vengo accolto con piacere da questi; mi nutro di quel cibo che è solo pe me e per il quale io sono portato; e non mi vergogno a conversare con loro e chiedergli spiegazioni sulle loro azioni, e loro, per la loro gentilezza, mi rispondono; e per quattro ore, non avverto la noia, dimentico ogni preoccupazione, non temo la povertà e la morte non mi turba: mi immergo completamente nel loro mondo.
E poiché Dante afferma che non si può acquisire conoscenza senza memorizzare ciò che si è compreso, ho preso nota delle conversazioni con questi antichi autori e ho scritto un trattato intitolato "De principatibus"; dove io mi immergo completamente nelle riflessioni su questo argomento, discutendo la natura dei principati, le diverse tipologie, come si ottengono, come si mantengono e come si perdono. E se in passato avete apprezzato un qualsiasi mio strano scritto, allora dovrebbe piacervi anche questo; dovrebbe essere particolarmente gradito anche a un principe, specialmente a un nuovo principe: perciò io l'ho dedicato a Sua Magnificienza Giuliano de Medici.
Filippo Casavecchia l'ha visto; potrà darvi qualche informazione in più sia sull'argomento stesso che sulle conversazioni che ho avuto con lui, anche se non ho smesso di rifinire il testo.
Vorreste, illustre ambasciatore, che io abbandonassi la mia vita attuale e venissi a godere della vostra. Lo farò sicuramente prima o poi, ma al momento sono trattenuto da alcune questioni personali che prevedo di risolvere entro sei settimane. Ciò che mi rende dubbioso è che qui (da voi a Roma) ci sono i Soderini, e sarei obbligato, una volta giunto qui, a fargli visita e a conversare con loro. Avrei il timore che al mio ritorno (a Firenze) io creda di smontare da cavallo a casa mia, ma smonti invece nel Bargello (carcere fiorentino); perché, sebbene questo Stato abbia solide basi e una grande sicurezza, è comunque relativamente recente e quindi sospetto; inoltre, non mancano i presuntuosi, come Pagolo Bertini, che potrebbero mettere altri nei guai, lasciandomi a sopportare le conseguenze. Vi prego di sciogliere questo mio timore e, una volta fatto ciò, verrò sicuramente a trovarvi come stabilito.
Ho discusso con Filippo riguardo a questa mia opera (Il Principe), se fosse meglio darlo (a Giuliano de' Medici) oppure no; e, nel darglielo, se fosse più appropriato consegnarglielo personalmente o inviarglielo. Non consegnandolo avrei avuto il dispiacere che Giuliano non l'avrebbe neppure letto; o che Ardinghelli avrebbe preso il merito del mio ultimo lavoro. La decisione di consegnarlo era spinta dalla necessità, poiché mi stoo consumando e non posso continuare a vivere in queste condizioni senza finire nella miseria. Inoltre, mi farebbe piacere che i Medici iniziassero a sfruttare le mie capacità, fosse anche solo quello di far rotolare un sasso; perché se non fossi in grado di conquistarmeli, me la potrei prendere con me stesso; e in tal caso, quando (quest'opera) sarà letta, si capirebbe che nei quindici anni in cui ho studiato le forme di governo, non ho sprecato il mio tempo dormendo e giocando; e tutti dovrebbero apprezzare l'opportunità di avere a disposizione un individuo esperto che non ha bisogno di essere istruito a spese altrui. E non dovrebbero sorgere dubbi sulla mia lealtà, poiché avendo sempre osservato la fede, non ho motivo di smettere proprio adesso; e chi è stato onesto e fedele per quarantatré anni, come me, non può cambiare la propria natura. La mia povertà stessa è testimonianza della mia lealtà e della mia bontà. Quindi, gradirei che mi scriveste anche il vostro punto di vista su questo argomento. Abbiate cura di voi. (Sii felice)



Analisi del testo

La lettera inizia con un verso di Francesco Petrarca: "Tarde non furon mai grazie divine", il cui significato è che "è meglio tardi che mai, specialmente se si tratta di qualcosa di lieto da leggere".

Le attività che Machavelli svolge di giorno sono: andare a caccia, andare nel bosco dove viene tagliata la legna, dedicarsi alla lettura di libri "leggeri", andare in osteria dove si gioca a carte. Le attività che Machiavelli svolge di sera sono: leggere libri classici e scrivere opere.

L'opera Il principe è anche chiamata opuscolo e ghiribizzo, alludendo in modo ironico alle sue ridotte dimensioni e, forse, al poco tempo impiegato nella sua composizione.

Le espressioni popolari presenti nel testo sono: dare briga, badalucco, in gaglioffo, triche-trach, traggo el cervello di muffa, fare el diavolo, hanno fatto capo grosso. Le espressioni di carattere elevato sono: abiti curiali, loto, humanità



Figure retoriche

Nel testo sono presenti diverse figure retoriche. Eccovi le più importanti:
  • Anastrofe = "la vita mia". Cioè "la mia vita".
  • Similitudine = "che parevo el Geta quando e' tornava dal porto con i libri di Amphitrione"; "pareva el Gaburra quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue".
  • Perifrasi = "quando quella tramontana soffiava". Per indicare l'arrivo del freddo.
  • Iperbole = "e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano". In quanto il luogo si trova a 3 km di distanza.
  • Dittologia = "di fango e di loto". Sono sinonimi.
  • Metafora = "traggo el cervello di muffa"; "farmi voltolare un sasso".
  • Climax discendente = "come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono".
  • Anacoluto = "Mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui".



Commento

In questa lettera scritta da Niccolò Machiavelli all'ambasciatore fiorentino Francesco Vettori, Machiavelli inizia esprimendo gratitudine per aver ricevuto una lettera dall'ambasciatore, nonostante questa sia giunta tardi. Utilizza una citazione di Petrarca, "Tarde non furon mai grazie divine," per sottolineare che, nonostante il ritardo, il gesto di Vettori è molto apprezzato da Machiavelli.
Machiavelli scrive di aver percepito questo lungo periodo di assenza di comunicazione al fatto che egli possa aver perso la benevolenza di Vettori, che potesse essere sospettato di non aver gestito bene la corrispondenza tra loro. Tuttavia, rivela che ha mostrato le sue lettere solamente a Filippo e Pagolo, preservando la loro riservatezza.
Successivamente, Machiavelli si rallegra del rinnovato rapporto con Vettori grazie alla recente lettera ricevuta. Esorta Vettori a continuare nel suo incarico di ambasciatore, riconoscendo l'importanza di vivere il proprio lavoro con serenità e di non sacrificare del tutto la propria vita per gli altri, perché spesso non si ricava nemmeno un grazie. Un altro insegnamento di vita che ne esce fuori dalla lettera di Machiavelli è che è meglio non contrariare la fortuna, ma aspettare il momento giusto per agire, poiché tentare di forzare le circostanze può avere conseguenze negative.
Machiavelli poi racconta la sua vita in campagna, descrivendo le sue attività quotidiane, inclusa la caccia ai tordi, la gestione di un bosco, e le conversazioni con i taglialegna che il più delle volte si tramutano in liti, specialmente quando c'è di mezzo la vendita della legna, dimostrando di essere direttamente coinvolto anche nelle questioni pratiche. Durante il giorno, si intrattiene anche con gli abitanti e coloro che sono di passaggio nell'osteria locale, ascoltando le loro storie e apprendendo le loro preferenze e le loro stranezze.
Machiavelli prosegue dicendo che ciò che fa di giorno è totalmente diverso da quello fa di sera: egli passa il suo tempo allo studio, leggendo autori classici come Dante e Petrarca. Infine, Machiavelli menziona il suo libro "De Principatibus" (Il Principe) e ha un dubbio che si porta dentro, ovvero se darlo oppure no al destinatario (Giuliano de' Medici). La sua intenzione è quella di consegnarglielo anche per evitare che altri possano impossessarsene e, inoltre, esprime il forte desiderio di ricevere incarichi dai Medici, qualunque essi siamo, ribadendo la sua lealtà.
La lettera si conclude con Machiavelli che chiede a Francesco Vettori di condividere il suo parere circa il suo ultimo dilemma, augurandogli il meglio con un "Sis felix," espressione latina che significa "Sii felice".



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