Monumento equestre di Cangrande, Museo di Castelvecchio, Verona. |
Analisi del canto
Il canto dell'esilioII canto è il terzo e ultimo «atto» del trittico dedicato all'incontro di Dante con Cacciaguida, e riveste capitale importanza rispetto alla struttura dell'intero poema: è qui, infatti, che viene svelato il destino di esilio del poeta, e il significato universale della sua opera. Giunge così a compimento la tensione messianica che accompagna l'eccezionale condizione di Dante e del suo viaggio oltremondano, annunciata fin dal primo canto dell'inferno; e si rivela con l'ultima e più clamorosa delle profezie.
La profezia
La profezia è uno degli strumenti retorico-narrativi che Dante predilige per conferire fascino e autorità sacrale alla materia trattata. Qui trova la sua massima espressione, in quanto espediente prescelto per la rivelazione più significativa rispetto ai destini di Dante e della sua opera. Si tratta di una profezia particolarmente articolata: prima è esplicita rivelazione a Dante dell'imminente esilio, costruita sui dati storici e psicologici derivati dall'esperienza reale del poeta; poi allude in termini misteriosi e generici al destino di gloria di Cangrande della Scala; infine annuncia l'immortalità poetica di Dante, così dando voce all'intima speranza e all'orgogliosa coscienza che il poeta aveva di sé. Nel primo caso, questa profezia corona tutta una serie di precedenti accenni in passi molto famosi quali quelli di Ciacco , Farinata , Brunetto Latini, Corrado Malaspina , Oderisi da Gubbio ecc. Nel secondo caso Dante usa lo stratagemma di parole profetiche a lui rivelate ma non riferibili ai lettori, per poter innalzare personaggi o minacciare eventi che i dati reali non giustificherebbero (era stato il caso di Carlo Martello nel capitolo ix). Nel terzo caso, la profezia è un ulteriore modo per sottolineare l'eccezionalità della propria esperienza, conferire ulteriore autorità alla propria opera, e dichiarare la propria speranza di gloria (altro celebre passo, in questo senso, sarà l'incipit del canto xxv).
L'esilio
Il tema classico dell'esilio, presente in tanta letteratura (a partire dall'Ulisse omerico), trova in Dante una delle sue massime testimonianze artistiche, e in modo speciale proprio in questo canto. Il poeta trasferisce nell'espressione poetica la propria drammatica esperienza, decisiva per la sua vita intera; e l'esilio diventa uno dei temi più appassionati e significativi della Commedia. Nella profezia di Cacciaguida se ne annunciano i vari aspetti: l'ingiustizia della condanna, la miseria del pellegrinaggio, le umiliazioni del cercare protezioni, la fatica nel dover accettare costumi diversi, la straziante nostalgia della patria. A queste sofferenze, nel caso di Dante, se ne aggiungerà una ancora più grande, che provocherà l'acre indignazione del poeta: la compagnia di gente del suo partito si rivelerà tanto meschina, incapace e violenta da indurlo a una scelta di solitudine, fisica e morale. Ma proprio nella condizione di esilio Dante leggerà i segni di un destino eccezionale, di una missione rigeneratrice della società, da annunciare con la sua opera.
La missione di Dante e della sua opera
Nel primo canto dell'inferno Dante aveva spiegato il viaggio nei regni oltremondani come esperienza necessaria per sfuggire alla selva del peccato. Ma fin dal canto successivo aveva suggerito che l'eccezionalità della situazione doveva presupporre una ben più alta finalità. E ora, nel Paradiso, il poeta e la sua opera ricevono da Cacciaguida la loro nobile investitura: qui vengono rivelati il perché del suo viaggio straordinario e lo scopo provvidenziale del poema. Attraverso la narrazione delle pene e delle beatitudini di dannati e beati, dovrà ammaestrare gli uomini perché si ravvedano dal peccato che sta degenerando il mondo, e ricompongano quella pace, quella giustizia, quell'ordine che Dio ha predisposto per la vita terrena affinché conduca alla salvezza eterna. Per questo l'opera di Dante deve condannare tanti uomini e regni potenti, papi e imperatori, poiché è ai potenti che si rivolge in modo particolare, essendo loro i principali responsabili del bene e del male sulla terra. Così, anche in questo canto supremamente autobiografico, si manifestano ancora una volta il tema morale e il tema politico.
Il tema autobiografico
Preparata dalla lunga rievocazione, nei canti precedenti, del «luogo» della sua vita, Firenze, qui abbiamo la rivelazione dei due massimi destini personali di Dante: quello dell'uomo esiliato e quello del poeta ispirato da Dio. Tutta la tematica autobiografica, così rilevante nel corso dell'opera, raggiunge così il suo compimento.
L'incipit mitologico
Come nel caso del canto viii, l'eccellenza del canto è annunciata dall'altezza retorica dell'esordio, di natura mitologica. Dante rievoca con estrema sintesi ed ellissi il mito di Fetonte, nei suoi aspetti narrativi, simbolici e affettivi, e nella similitudine trasferisce l'intensità e la sacralità della propria condizione, nel momento in cui si accinge a rivolgere domande decisive al progenitore Cacciaguida.
Commento
Lascia pur grattar dov'è la rognaL'incontro tra Dante e l'avo Cacciaguida continua sui toni elevati dei due canti precedenti, quando il poeta ritiene che sia giunto il momento di chiedere spiegazioni sulle oscure profezie che l'hanno accompagnato per tutto il viaggio. Viene così a sapere direttamente dall'avo, che legge nella mente di Dio, la notizia dell'esilio, dell'invidia e della cattiveria dei suoi concittadini; e tuttavia apprende che i suoi nemici subiranno la giusta punizione. Il poeta si sente preparato ad affrontare la sorte avversa, eppure c'è qualcosa che lo inquieta e che vuole chiarire con Cacciaguida: dovrà, al ritorno sulla terra, render nota la sua eccezionale esperienza? Egli, che ha visto i vizi del mondo, la corruzione della Chiesa, le debolezze dell'impero e l'avidità dei papi, che ha riconosciuto nei cerchi infernali noti personaggi del tempo a lui vicino, che ha scoperto salvezze inaspettate e dannazioni impensabili, che, per bocca delle anime che ha via via incontrato, ha denunciato gli abusi e le violenze perpetrate nel mondo e nella sua città, se riferirà tutto, non correrà il rischio di essere maggiormente bandito dal consorzio umano? Se per prudenza invece tacerà, non rischierà di abbreviare la sua fama presso i posteri? La risposta di Cacciaguida è incontrovertibile e il linguaggio realistico (lascia pur grattar dov'è la rogna) muove dallo sdegno nei confronti del decadimento della vita civile. In questo grattar la rogna c'è tutta la concretezza della scrittura di Dante, ma anche la colorita espressività delle Sacre Scritture, quella santa indignazione che pone in atto la distanza tra il giusto e il reo. La denuncia di Dante rivela la stessa energia profetica, dunque, di un messaggio di salvazione: chi ascolterà la voce del poeta che "grida nel deserto" (vox clamantis in deserto) avrà anche la possibilità di riscattarsi dalla colpa. Così Dante riceve dall'alto del Paradiso l'investitura di una missione salvifica per l'umanità e prestigiosa per la sua fama. La necessità di fornire agli uomini esempi illustri, non oscuri, su cui possano meditare, conferma energicamente il valore didattico della sua arte. Il Paradiso non è solo visione di pura luce: la terra e le sue sofferenze ritornano, con prepotenza, nel discorso poetico, ma rivisitate, solo ora, dallo sguardo di chi è consapevole di una nuova verità.
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