Cacciaguida, illustrazione di Gustave Doré |
Analisi del canto
I canti di CacciaguidaÈ il primo «atto» di un'unica sequenza lirico-narrativa, nota come «i canti di Cacciaguida», che comprende i canti xv, xvi e xvii (con un'appendice ai primi 51 versi del canto xviii). Si tratta di uno dei passaggi cruciali del poema, ed è significativo il fatto che occupi esattamente la parte centrale della cantica. Il tema fondamentale è quello del significato provvidenziale del destino di Dante; e la sua vicenda personale viene posta in rilievo sullo sfondo storico-morale di Firenze antica. Il «trittico» di Cacciaguida è così strutturato: canto xv, incontro di Dante con il suo illustre progenitore, descrizione morale dell'antica Firenze e definizione genealogica della famiglia Alighieri; canto xvi, descrizione storica dell'antica Firenze; canto xvii, rivelazione del destino di esilio di Dante, e sua investitura a cantore della verità per la missione riformatrice cui vuole dedicarsi con la sua opera.
Le costanti strutturali
Riconosciamo nel canto alcuni elementi costanti nella costruzione narrativa e poetica del Paradiso:
- modalità di apparizione delle anime del cielo di Marte, con la danza, il coro e la concorde volontà dei beati (vv. 16);
- i beati leggono in Dio il pensiero di Dante (vv. 28-48);
- l'invito di Cacciaguida a Dante a esprimere i propri desideri, e l'assenso di Beatrice (vv. 64-72).
L'incontro con Cacciaguida
La sacralità, l'importanza e l'emozione dell'incontro del poeta con il progenitore Cacciaguida sono rilevabili dai molti elementi che ne caratterizzano la preparazione e le prime battute: l'ambientazione che prepara al riconoscimento, con lo sfolgorare della croce di Marte (e su di essa la figura di Cristo) e con il sospeso silenzio che accompagna l'avvicinarsi della luce dell'avo ai piedi della croce (vv. 124); l'analogia con l'incontro tra Enea e il padre Anchise (vv. 25-27); l'altezza del linguaggio, necessaria per esprimere la tensione del momento, con l'esordio in latino (vv. 28-30) e quindi con parole tanto ineffabili da risultare incomprensibili all'umano Dante (vv. 37-42); la lunga attesa di Cacciaguida per il predestinato viaggio di Dante (vv. 49-54); le espressioni ardenti e insieme rispettose che i due personaggi si scambiano (vv. 3787).
Il tema politico-morale
La celeberrima rievocazione della Firenze sobria e pudica dei tempi antichi (vv. 97-129), che proseguirà nel canto xvi, è l'esemplificazione più alta dell'ideale vita civile per il poeta, quella per cui si parla della sua utopia rivolta al passato: un passato in cui la concordia fra Chiesa e Impero permetteva una vita semplice e raccolta delle varie comunità, in cui si preservavano i valori della tradizione, dell'onestà, della morigeratezza, e in cui si conservavano le virtù antiche della cavalleria. La lode della Firenze antica evoca immediatamente il confronto con il presente, e provoca la polemica morale e politica contro la Firenze attuale, moderna e corrotta. Il passato celebrato da Cacciaguida non ha però solo i connotati della nostalgia per l'irrimediabilmente perduto, bensì si propone come modello ancora recuperabile di società.
Il tema autobiografico
Più che in ogni altro momento del poema, i canti di Cacciaguida sono quelli in cui il tema autobiografico diventa reale protagonista della poesia e della vicenda. A conferirgli alta dignità è la figura eroica di Cacciaguida, cui Dante affida la nobilitazione della propria ascendenza familiare: l'uno è radice di quella «pianta», cioè la discendenza, di cui Dante è la fronda prediletta (vv. 88-90); quindi, il lungo digiuno, cioè la lunga attesa di Cacciaguida, enfatizza l'eccezionalità e provvidenzialità della venuta di Dante in Paradiso (vv. 49-54); e ancora, tutta la rievocazione della Firenze antica e il confronto con l'attualità ci collocano all'interno del mondo ideale e reale dell'esperienza civile di Dante, cui non è estranea la nostalgia dell'esiliato (vv. 97-129); infine, proprio in questo canto, abbiamo la dichiarazione della genealogia del poeta (vv. 89-96 e 130-148). Si prepara in questo modo il momento culmine dell'autobiografismo dantesco: annunciato fin dal primo canto dell'Inferno, nel canto xvii verrà esplicitamente dichiarato il suo futuro esilio.
I registri linguistici: dal sublime al domestico
La magia di questo canto si riflette nell'estrema varietà dei registri lessicali impiegati, che si fondono senza contrasti. Si passa dai toni rarefatti di una lingua divina e sublime, incomprensibile all'uomo (vv. 37-42), alla citazione latina (vv. 28-30) e alla dotta formulazione teologica (vv. 55-60), per arrivare al linguaggio domestico e tecnico del quotidiano (vv. 97 sgg.). Dal punto di vista espressivo, potremmo suddividere il canto in due parti: la prima caratterizzata da un prodotto linguistico più alto e dotto (vv. 1-96); la seconda costruita con il lessico e la retorica della domesticità e dell'epica arcaica (vv. 97-148).
Le costanti formali
La similitudine astronomico-paesaggistica (vv. 13-21); la metafora delle pietre preziose per indicare i beati e gli astri celesti (vv. 85-87).
Commento
La radice e la frondaIl canto XV ha due centri poetici: l'incontro di Dante con il trisavolo Cacciaguida e l'invettiva contro la Firenze contemporanea al poeta, contrapposta alla Firenze sobria e pudica del passato. Il primo tema è svolto in uno sfavillare di luce, in un continuo di metafore, di dichiarazioni iperboliche. Si tratta di un momento particolare del percorso di Dante, di una situazione che ha il carattere dell'eccezionalità, di frasi dette e fatte intuire, di realtà che continuamente si confondono e rimandano ad altro. Al di sotto dei versi si coglie una grande emozione: c'è il piacere di Dante di conoscere la propria radice, l'orgoglio di discendere da un antenato illustre, la consapevolezza del proprio valore, la forza di chi non si arrende alle circostanze ma lotta con l'unica arma di cui dispone: la poesia. È un momento di profonda riconciliazione con se stesso e col mondo: ora Dante riesce a conoscere il padre da sempre desiderato e riceve l'investitura della sua missione di salvezza. Il riso di Beatrice, così traboccante d'amore, crea un'atmosfera di ardente scambio affettivo, che suggella la conquistata pienezza interiore. Sfilano, nel ricordo di Cacciaguida, gli antenati di Dante; solo l'accenno all'avo Alighiero, che vaga per il girone dei superbi, introduce una nota di riflessione autobiografica: la superbia è forse un marchio di famiglia dal quale anche il poeta non è esente. È così che Cacciaguida lo invita paternamente a pregare per Alighiero, perché possa accorciare il tempo dell'espiazione in Purgatorio. In un momento di alta commozione fronda (Dante) e radice (Cacciaguida) si incontrano nella realtà suggestiva della luce del Paradiso, in un abbraccio di Spiriti Magni che consegnano ai posteri un messaggio di eternità. Poi, d'un tratto, l'atmosfera allusiva e accattivante nella quale Dante e Cacciaguida si sono confusi nella comunanza di valori e del destino di salvazione, si perde nella concreta e realistica descrizione della Firenze del buon tempo antico. Cacciaguida s'abbandona ai ricordi, e la sua rievocazione ha il sapore caustico di un'invettiva contro la corruzione presente. La descrizione si addentra nei particolari minuti dell'abbigliamento femminile, nella denuncia dei matrimoni d'interesse, della lussuria e dell'ostentazione del denaro, in cui s'intravede un presagio di morte. Ecco gli abitanti della Firenze di un tempo: forse un po' rudi ma autentici, sinceri, buoni mariti e buoni padri. Ecco le donne, contente di un vivere semplice e casalingo, descritte mentre assolvono al compito di madri con tenerezza e competenza: in ogni uomo c'era un Cincinnato di romana memoria, in ogni donna c'era la nobile Cornelia, famosa madre dei Gracchi. Un ambiente di pace e di armonia travolto dai "sabiti guadagni". Dante denuncia i suoi contemporanei, che hanno trasformato una cittadinanza fida, un cosí dolce ostello in una città corrotta, teatro di lotte fratricide. Egli è tra i figli espulsi da Firenze e costretti a girovagare per il mondo; la sua ansia di giustizia può solo placarsi nell'abbandono fiducioso in Dio in cui ritrova, tra gli altri, la sua radice.
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